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capitolo liii 145


la lettera di porto che aspettavo appunto da Pisa. I miei bauli si trovavano alla dogana di Firenze; andai perciò il giorno dopo a farne la spedizione per Bologna; e non indugiai a seguirli. Dalla porta della città, che io lasciava con tanto dispiacere, fino a Cafaggiolo, abitazione di campagna del granduca, quattordici miglia distante dalla capitale, godevo sempre della piacevole esposizione e dell’industriosa cultura del paese toscano; ma appena che bisognò cominciare ad arrampicarsi per l’Appennino, vidi una maravigliosa mutazione nel suolo, nell’aria, in tutta la natura. Passai col dispiacere del confronto quelle tre alte montagne, il Giogo, l’Uccellatoio, e la Raticosa, desiderando che i Fiorentini e i Bolognesi trovassero il mezzo di agevolare quest’alpestre cammino, per cui rendevasi noiosa e difficilissima la comunicazione di codesti due paesi importanti. Ebbero effetto i miei desiderii poco tempo dopo. Giunti a Bologna, avevamo bisogno mia moglie ed io di riposarci, onde non si vide alcuno; si riprese in capo a ventiquattr’ore il viaggio, ed arrivammo a Mantova alla fine di aprile.

Il Medebac, da cui ero aspettato con impazienza, mi accolse con giubilo, avendomi già preparato un quartiere in casa della signora Balletti. Era questa una vecchia comica, che sotto il nome di Fravoletta era stata eccellente nella parte di servetta, e che godeva nel suo ritiro d’una comodità molto piacevole, conservando ancora nella grave età di ottant’anni qualche resto della primitiva sua bellezza, ed un lampo della vivacità e della bizzarria della sua mente. Essa era matrigna di madamigella Silvia, che fece le delizie del teatro comico italiano in Parigi, e nonna della signora Balletti, alla quale vidi fare in Venezia la più bella comparsa per la sua bravura nel ballo, primeggiando poi in Francia anche in quella della commedia. Passai a Mantova un mese intero in termini molto cattivi, e quasi sempre in letto; l’aria di codesto paese paludoso non era per me. Diedi al direttore due nuove commedie composte per lui espressamente. Ne parve molto contento, nè disapprovò che andassi ad aspettarlo a Modena, ove doveva trovarsi egli pure per passarvi l’estate; feci assai bene a venirmene via; alla seconda posta mi sentii sollevato in modo che arrivai a Modena in perfetto stato di salute. La guerra aveva avuto termine; l’infante don Filippo era al possesso dei ducati di Parma, Piacenza, Guastalla, e il duca di Modena era già tornato al suo paese. La banca ducale proponeva accomodamenti ai creditori: avevo dunque sommo piacere di essere in grado d’attendere da me stesso ai miei interessi.

Giungono a Modena alla fine di luglio il Medebac e la sua compagnia. Diedi al medesimo una terza commedia, e serbai per Venezia l’esposizione delle mie prime novità. Era questo il paese, dove avevo gettato i fondamenti del Teatro Italiano, ed era appunto là dove dovevo lavorare per la costruzione del mio nuovo edifizio. Non avevo da combatter rivali, avevo però da superare alcuni pregiudizi. Se il lettore ha avuto la compiacenza di seguitarmi fin qui, la materia che son per offrirgli lo muoverà forse a continuarmi la sua benevolenza ed attenzione.

Il mio stile sarà sempre l’istesso, cioè senza eleganza, senza pretensione, ma animato dallo zelo per la mia arte e dettato dalla verità.