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Pagina:Goldoni - Memorie, Sonzogno, 1888.djvu/160

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158 parte seconda

CAPITOLO V.

Prova della Vedova scaltra. — Parodia critico-satirica di questa commedia. — Mia apologia. — Mio trionfo. — Quando fu instituita la censura delle rappresentazioni teatrali in Venezia.

Avevo esposte composizioni d’un esito felicissimo, veruna di esse però poteva vantar quello della Vedova scaltra; ma nessuna di esse aveva incontrato critiche sì forti e pericolose. I miei nemici e quelli de’ comici, tentarono un colpo dal quale potevamo esser tutti in egual modo oppressi, se non avessi avuto coraggio bastante per sostenere la comune causa. Alla terza prova di questa commedia comparvero gli affissi del teatro San Samuele, che annunziavano La Scuola delle Vedove. Alcuni mi avevano detto che doveva essere la parodia della mia composizione. Nulla di questo, anzi era la mia Vedova istessa; vi avean parte i quattro forestieri delle rispettive nazioni, vi era l’intreccio medesimo, i mezzi stessi. Tutta la variazione consisteva nel dialogo, che era pieno d’invettive e di insulti contro me ed i comici.

Un attore recitava alcune frasi del mio originale, e un altro soggiungeva sciocchezze, sciocchezze; si ripeteva qualche vivace espressione e facezia della mia commedia, e tutti allora in corpo gridavano scempiataggini, scempiataggini. Un lavoro simile non era costato all’autore molta pena, poichè aveva seguitato il mio disegno, il mio andamento, ed il suo stile non era niente più felice del mio; frattanto gli applausi risonavano per ogni parte, ed i sarcasmi e i tratti satirici eran fatti risaltar maggiormente dalle risate, dai gridi di bravo e dai replicati battimani. Io me ne stava in maschera in un palchetto, osservando il più rigido silenzio e chiamando ingrato il pubblico. Avevo però tutto il torto, poichè quel pubblico congiurato contro di me, finalmente non era il mio.

Infatti tre quarti degli spettatori eran composti di gente unicamente intesa alla mia rovina, e poi tanto il Medebac quanto me avevamo a combattere con sei altri spettacoli che si davano nella città medesima; ognuno di essi aveva i suoi amici, i suoi aderenti, e la maldicenza dava divertimento agli indifferenti. Presi nel momento stesso la mia risoluzione, e benchè avessi data parola di non rispondere alle critiche, pure questa volta sarebbe stata troppa viltà dal canto mio, se non avessi arrestato il corso a quel torrente che minacciava la mia distruzione. Rientro in casa, dò i miei ordini perchè si ceni, si vada a letto, e mi si lasci in quiete, e mi chiudo subito nel mio studiolo. Prendo con rabbia la penna, nè la depongo fino a che non mi credo soddisfatto. Il mio lavoro era una apologia in azione con un dialogo a tre personaggi, intitolata Prologo apologetico della Vedova scaltra. Non mi estesi sulla meschinità della composizione de’ miei nemici, ma procurai di far conoscere unicamente il pericoloso abuso della libertà degli spettacoli, e la necessità d’un provvedimento politico per la conservazione della decenza teatrale. Avevo fatto attenzione in quella pessima parodia a certe proposizioni, che ferir dovevano la delicatezza della Repubblica riguardo ai forastieri. Il popolo di Venezia si serve, per esempio, della parola panimbruo per insultare i Protestanti; questa è una parola vaga, come quella a un dipresso di Ugonotto in Francia; il gondoliere di milord adunque, nella Scuola delle Vedove, trattava