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238 parte seconda


tini per i Greci si era spacciato per cittadino di Spalatro, capitale della Dalmazia veneta. Informato Radovich della schiavitù della sua bella, si porta a Tetuan per riscattarla; Zandira senza conoscere il suo liberatore protesta recisamente che non escirà mai di schiavitù se Lisauro pure non resta nel tempo medesimo e insieme con lei liberato. Il Dalmatino frattanto vede la sua bella, la trova di suo gusto, ne resta incantato e le perdona un affetto ch’egli suppone innocente verso un disgraziato della sua nazione; quindi acconsente di procurare il riscatto di lui. Il Greco è un perfido che aveva già ingannato di fresco una sua compatriotta, ed ora volea abusare della buona fede della nuova amante e della generosità del suo benefattore. Hibraim, governatore di Tetuan, riceve il prezzo convenuto, e dà libertà agli schiavi; ma Alì, quell’istesso corsaro barbaresco, di cui Zandira era divenuta schiava per diritto di conquista, e ch’egli riservava pel suo proprio serraglio, si sdegna che il governatore ne abbia disposto senza il suo consenso; onde vedendo la sua preda vicina a scappargli di mano, di nuovo la rapisce e la costringe a seguire i suoi passi. Radovich e Lisauro inseguono il rapitore, lo assalgono. Alì, che ha seco gente, si difende. Ecco sciabole in aria; Zandira trova per caso tra gli alberi una scure da tagliar legna; coraggiosa la impugna, e fa dal canto suo prodigi di valore. Il corsaro cade a terra; mentre Radovich continua ad inseguire i Turchi. Lisauro s’impadronisce di Zandira, vuol rapirla. Ella si difende fino al ritorno di Radovich, cui nasconde per prudenza l’indegna azione del Greco; ma questo nuovo attentato la provoca a sdegno in modo, che Lisauro le diviene odioso. Sono tutti arrestati per ordine del governatore che vuol essere informato dell’accaduto; e trovando che Alì aveva meritato la morte, dà ragione agli Europei, e mostra così che in Affrica pure regna la giustizia ed equità al pari che in Europa. Lisauro finalmente è smascherato: ciò non ostante Radovich gli perdona, parte con la sua sposa, e così termina la commedia con la maggiore contentezza del pubblico. In quel giorno il teatro era pieno di Dalmatini, i quali furono di me sì contenti, che mi ricolmarono di elogi e di regali; ma ciò che mi appagò ancora di più, fu d’essere andato a genio al mio amico Sugliaga, persona che fa tanto onore a quell’illustre nazione.

Dopo una commedia di tanto brio comico e di tanto incontro n’esposi un’altra di stile veneziano, che lungi dal raffreddare il teatro lo scaldò in modo, ch’ella sola sostenne lo spettacolo per tutto il resto dell’autunno; il titolo di questa commedia è I Rusteghi. Son questi quattro cittadini veneziani del medesimo stato, dell’istessa fortuna e di egual carattere: uomini di rigida maniera ed insociabili, seguaci degli usi antichi, e nemici terribili delle mode, del divertimento e delle conversazioni del secolo. Questa uniformità di caratteri invece di rendere monotona la commedia forma anzi un quadro affatto nuovo e piacevole; poichè ciascuno di loro si mostra con chiaroscuri propri e particolari, provando con quest’esperienza che i caratteri degli uomini sono inesauribili. L’educazione, le abitudini diverse, le differenti condizioni, sono appunto le cose che fanno veder gli uomini d’uno stesso carattere sotto aspetti diversi. Le mogli, per esempio, contribuiscono infinitamente a raddolcire la ruvidezza de’ loro mariti, o piuttosto e renderli più ridicoli che mai. Tre de’ miei rusteghi hanno moglie; Margherita donna fastidiosa, collerica ed ostinata, rende Leonardo suo marito insoffribile. Marina con la sua stupidità e