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CAPITOLO XXII.

Mio dottorato. — Singolarità che lo precederono.

Vedendomi sul punto di comparire in toga lunga nelle grandi sale del palazzo, ove pochi anni avanti ero comparso sempre in abito corto, andai a trovare mio zio Indric, in casa del quale avevo fatto la mia pratica. Ebbe caro di rivedermi, e mi assicurò che potevo far capitale di lui. Mi convenne per altro superar molte difficoltà.

Per essere riconosciuto avvocato in Venezia, è necessario rifarsi dall’essere addottorato nell’università di Padova, e per ottener le patenti di dottore, bisogna aver fatti gli studi di legge nella medesima città e avervi passati cinque anni consecutivi, con gli attestati di aver percorse tutte quante le diverse classi di quelle scuole pubbliche. I soli forestieri possono presentarsi al collegio, sostener le loro tesi, ed essere subito addottorati. È vero, che io era originario di Modena: ma nato a Venezia come mio padre, poteva io godere il vantaggio dei forestieri? non lo so. Una lettera per altro scritta d’ordine del duca di Modena al suo ministro a Venezia mi fece ascrivere nella classe dei privilegiati.

Eccomi dunque nella possibilità di ritornar ben presto a Padova e di ricevervi la laurea dottorale; ma ecco un nuovo ostacolo assai più forte. Nella curia di Venezia non si séguita che il codice Veneto, nè si citano mai Bartolo, Baldo, o Giustiniano; questi autori son quasi ignoti; a Padova però bisogna conoscerli. Succede adunque a Venezia come a Parigi: i giovani perdono il tempo in uno studio inutile. Io pure avevo perduto il mio in egual modo che gli altri, e benchè avessi studiato il gius romano a Pavia, a Udine, a Modena, dopo quattr’anni ero fuori di esercizio, avevo perduta la traccia delle leggi imperiali, e mi vedevo nella necessità di tornar di nuovo scolare. M’indirizzai a uno dei miei antichi amici. Il signor Radi da me conosciuto fino da’ miei primi anni, avendo impiegato molto meglio di me il suo tempo, era divenuto buon avvocato, ed eccellente maestro di legge per istruire i candidati, che per lo più non andavano a Padova, fuorchè quattro volte all’anno per farsi soltanto vedere, e riportare in seguito le loro rassegne. Radi era un bravo uomo, ma era appassionato per il giuoco, ed appunto per tal ragione non si ritrovava in troppa comodità; i suoi scolari profittavano delle di lui lezioni, e spesso spesso del di lui danaro. Quando egli mi credè in istato di potermi esporre, andammo insieme a Padova. Confesso, che quantunque istruito, come già ero, e pieno di quell’ardire che l’uso del mondo mi aveva fatto acquistare, non lasciavano ciò nonostante di farmi una certa apprensione quelle gravi ed imponenti fisonomie, dalle quali dovevo esser giudicato; il mio amico si burlava di me, assicurandomi che non vi era nulla da temere; che queste erano cerimonie che non si potevano evitare, e che bisognava veramente esser del tutto ignorante per non esser coronato colla laurea dell’università.

Giunti nella gran città dei dottori, andammo subito a casa del signor Pighi, professore di gius civile, per pregarlo di compiacersi di essere il mio promotore, ciò è quello, che in qualità di assistente mi doveva presentare e sostenere. Egli mi concesse questa grazia, e accettò con garbata maniera un vassoietto di argento da me offertogli in dono. Andammo dipoi all’uffizio dell’università per depo-