Pagina:Goldoni - Memorie, Sonzogno, 1888.djvu/66

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64 parte prima

sitare in mano del cassiere la somma che i professori soglion dividersi fra loro, e questa anticipazione si fa a titolo di deposito: ma in questo luogo si dice appunto come al teatro: quando è alzato il sipario non si rendon quattrini. Conveniva far le solite visite a tutti i dottori del collegio, e con biglietti ne sbrigammo molte. Giunti però alla casa del signor abate Arrighi, uno dei primi professori dell’università, l’usciere aveva l’ordine di farci entrare. Lo trovammo nel suo gabinetto di studio, e gli si fece il complimento di volere onorarmi della sua persona, e nel tempo stesso accordarmi la sua indulgenza. Parve sommamente maravigliato nel sentirci limitare il discorso a questa secca ed inutile officiosità, ma noi non sapevamo che cosa volesse dire, ecco però di che si trattava. Era comparso un nuovo ordine pubblicato per comando dei Riformatori degli Studi di Padova, in vigor del quale chi aspirava alla laurea, prima di presentarsi al collegio adunato, doveva sostenere un esame particolare, per distinguere così se realmente fosse stato abbastanza istruito, e perciò degno di esporsi. Il signor Arrighi istesso, mosso da un eccessivo zelo, vedendo che l’atto pubblico dei candidati non era che un giuoco, che troppo si favoriva la giovanile infingardaggine, che si sceglievano le questioni a piacere, che si comunicavano anche gli argomenti, che si somministravano tacitamente le risposte, e che in sostanza si facevan dottori senza dottrina; aveva affrettato, ed ottenuto questo famoso ordine, il quale andava a distruggere l’università di Padova, se avesse lungamente durato. Dovevo dunque sostenere quest’esame, ed il mio esaminatore doveva essere l’abate Arrighi. Pregò pertanto il signor Radi di passare nella sua libreria, e si accinse subito all’opera. Non mi risparmiò in nulla; dal Codice di Giustiniano saltava ai Canoni della Chiesa, e dai Digesti alle Pandette. Rispondevo ora bene, ora male, e forse più male che bene, dimostrando per altro molta cognizione, e non minor franchezza. Il mio esaminatore però rigorosissimo, e di somma delicatezza, non era intieramente di me contento, e avrebbe voluto che avessi studiato un altro poco. Gli dissi però apertamente ch’ero venuto a Padova per essere addottorato, che la mia reputazione restava troppo compromessa se fossi tornato senza la laurea, e che il mio deposito era già fatto. — Come! egli riprese, voi avete già depositato il vostro danaro? — Sì, signore. — Ed è stato accettato senza mio ordine? — Il cassiere lo ha ricevuto senza la minima difficoltà, ed eccone qui il riscontro. — Tanto peggio: voi correte il rischio di perderlo. Avete voi coraggio di esporvi? — Sì, signore, sono determinato di uscirne a qualunque costo: amo piuttosto di renunziar per sempre ad essere avvocato, che di ritornare una seconda volta. — Siete molto ardito. — Signore, curo il mio decoro! — Basta dunque così; stabilite il giorno, io mi ci troverò: ma badate bene: la più piccola mancanza vi farà andare a vuoto il colpo. — Io fo la mia reverenza, e me ne vado.

Radi aveva inteso tutto, ed era più in timore di me. Conoscevo pur troppo ancor io, che le mie risposte non erano state molto esatte, ma nel collegio de’ dottori le quistioni son limitate, nè si fa percorrere il caos immenso della giurisprudenza da un termine all’altro. Il giorno seguente andiamo all’università per esser presenti all’estrazione dei punti, che la sorte mi aveva destinati. Quello di gius civile riguardava la successione degl’intestati, e quello di gius canonico verteva sulla Bigamia. Conoscevo bene i titoli dell’uno e i capitoli dell’altro; ma li ripassai quel medesimo giorno