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Pagina:Goldoni - Memorie, Sonzogno, 1888.djvu/85

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capitolo xxix 83


alcune bagattelle teatrali. Non avrei avuto tempo bastante per fare una commedia, non essendo l’accordo fatto con l’Anonimo, che per la primavera e l’estate fino al mese di settembre; e siccome tra i suoi stipendiati vi era un compositore di musica, ed un uomo con una donna che cantavano assai bene, feci un intermezzo a due voci, intitolato il Gondolier Veneziano, che fu eseguito, ed ebbe tutto il buon successo che una simile composizione poteva meritare. Ecco la prima opera comica di mia composizione che comparve al pubblico, e successivamente al torchio, essendo stata stampata nel quarto volume delle mie opere comiche, edizione di Venezia del Pasquali.

Nel tempo, che si eseguiva a Milano il mio Gondolier Veneziano, con commedie a braccia, si annunciò la prima rappresentazione del Belisario, e si continuò ad annunziarla per sei giorni prima di esporla, ad oggetto di eccitare la curiosità del pubblico, ed assicurarsi di avere un buono introito. I comici non s’ingannarono: il teatro di Milano di quel tempo (che anch’esso ebbe nelle fiamme il destino quasi ordinario di tutti i teatri) era in quel tempo il più grande di Italia dopo quello di Napoli. Nella prima rappresentazione del Belisario fu così considerabile il concorso, che si stava pigiati dalla folla, inclusive per le corsie. Ma che detestabile rappresentazione! Giustiniano era un imbecille, Teodora una cortigiana, e Belisario un predicatore. Compariva in scena privo di occhi. Arlecchino era il conduttore del cieco, e gli dava dei colpi di stecca per farlo andare; tutti erano nauseati, io poi più degli altri, avendo distribuite parecchie nomine a persone di primo merito. Il giorno dopo vado da Casali, che mi riceve ridendo, e mi dice in tono di beffa: — Ebbene, signore, che pensate voi del nostro famoso Belisario? — Penso, risposi, che questa è un’indegnità, che non mi aspettavo. — Eh via! egli riprese, voi non conoscete i comici. Non vi è compagnia, che non si serva di tempo in tempo di queste astuzie per far danaro, e questo si chiama in gergo comico un’arrostita. — Che cosa significa, io gli dissi, un’arrostita? — Ed egli: — Significa in buon toscano, una corbellatura; in lingua lombarda, una minchionada; ed in francese une attrape. I comici hanno l’uso di servirsene, ed il pubblico è assuefatto a soffrirle. Tutti non sono delicati, e l’arrostite andranno sempre avanti, fino a tanto che non siano soppresse da una riforma. — Vi prego, soggiunsi allora, mio signor Casali, di non arrostirmi per la seconda volta, consigliandovi a bruciar piuttosto il vostro Belisario, giacchè credo, che non vi sia cosa più detestabile. — Avete ragione, rispose; sono però persuaso, che di questa cattiva rappresentazione se ne possa fare una buona. — Senza dubbio, io gli risposi, l’istoria di Belisario può somministrare un’eccellente composizione. — Su via, replicò Casali, voi avete genio a lavorare per il teatro, fate che questo sia il primo vostro passo. — No, risposi, non comincerò mai con una tragedia. — Fatene una tragi-commedia. — Ma non sul gusto della vostra. Non vi saranno maschere, non vi saranno buffonerie. Vedrò... mi proverò. — Aspettate un momento: ecco qui Belisario. — Io non so che farmene. Il mio lavoro sarà ricavato dall’istoria. — Tanto meglio. Vi raccomando il mio amico Giustiniano. — Farò quello che posso. — Io non son ricco, procurerò per altro... — Discorsi inutili. Io lavoro per divertimento. — Amico, vi confido il segreto: l’anno venturo debbo andare a Venezia: se potessi portarvi meco un Belisario... Oh! là un Belisario in fiocchi... — Voi forse lo avrete. —