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Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1908, III.djvu/491

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L'AVVOCATO VENEZIANO 477


i ventimila ducati, straccio il contratto, annullo l’impegno, e non è degna di essere mia consorte. (parte)

Rosaura. (Ora principio a desiderare di perder la causa e di rimaner miserabile). (da sè)

Beatrice. Povera signora Rosaura; la volete sagrificare. Il Conte non la può vedere. (al Dottore)

Dottore. Quanti matrimoni si son fatti senza amore e senza inclinazione; eppure col tempo si sono accomodati. Non è una bella cosa il diventare contessa?

Rosaura. La pace del cuore val più de’ titoli e delle ricchezze. Se vinco la causa, se sposo il Conte, vedrete, signore zio, il miserabile frutto delle mie fortune. Stare con un marito che s’odia? Vedersi tutto dì d’intorno un oggetto che si aborrisce? Averlo da obbedire, da amare, da accarezzare? È una pena che non v’ha la simile nell’inferno. Povere donne! Se alcuna mi sentisse, di quelle che dico io, piangerebbero meco per compassione, consiglierebbero i padri, i congiunti delle povere figlie, a non disporre tirannicamente di loro, a non sagrificare il cuore di una fanciulla all’idolo dell’ambizione o dell’interesse. (parte)

Dottore. Quando si tratta di disputare l’articolo della libertà, le donne ne san più dei dottori; ma non ci sarà nessun giudice che dia loro ragione, non essendo giusto di preferire una vana passione al decoro e all’utile delle famiglie. (parte)

Beatrice. Chi sente lei, ha ragione, chi sente lui, non ha torto. È vero che tutte le sentenze in questo proposito uscirebbero contro di noi. Ma perchè? Perchè i giudici sono uomini; che se potessero giudicare le donne, oh! si sentirebbero dei bei giudizi a favore del nostro sesso. (parte)

Fine dell’Atto Secondo.