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52 | ATTO SECONDO |
a me preme quest’altro: oh benedetta! Mi ricorderò sempre di te, fin che vivo.
Beatrice. Orsù, vogliatemi bene, vogliatemi male, non m’importa niente. Mi preme mio figlio, e se non pensate voi a dargli stato, ci penserò io.
Pancrazio. Sì? come, in grazia?
Beatrice. Colla mia dote. Della mia dote ne posso far quel che voglio.
Pancrazio. Quando sarò morto, ma non finchè vivo. Orsù, v’ho partecipato questo matrimonio che voglio fare, per atto di convenienza; se lo aggradite, bene: se no, non saprei che farmi. Vado a dirlo a Lelio. Sentirò che cosa egli dice; s’egli è contento, avanti sera chiedo la ragazza, e serro il contratto.
Beatrice. Florindo dunque non può sperare di maritarsi?
Pancrazio. Signora no: per ora non s’ha da maritare.
Beatrice. Questa massima è opposta all’altra di lasciare ai figliuoli l’elezion dello stato.
Pancrazio. È vero, signora sì, queste due massime sono contrarie; ma sentite e imparate ciò che si ricava da queste due massime. Felici quei figliuoli, che si possono eleggere liberamente il proprio stato; ma più felici quelle famiglie, che non vengono rovinate da’ figliuoli nella elezione dello stato. Chi ha l’arbitrio di operare, e opera con prudenza, ricompensa colla rassegnazione la libertà che gli viene concessa. Parlo come l’intendo, e so che, poco o assai, l’intendete ancor voi: avete spirito, avete talento, e beata voi, se lo voleste impiegare in bene. (parte)
Beatrice. Può fare, può dire quel che vuole, è mio figlio, lo amo teneramente. Se è vero che la signora Eleonora lo ami, vorrà lui, e non Lelio. Mi chiarirò; anderò io stessa in casa del signor Geronio; condurrò meco mio figlio, e si ammoglierà ad onta di mio marito. Quando noi altre donne ci cacciamo in testa una cosa, non ce la cava nemmeno il diavolo. (parte)