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NOTA STORICA

Dopo la prima commedia (Tonin Bella Grazia: v. il Frappatore) offerta dal riformatore veneziano, reduce da Pisa, nell’autunno del ’48, che al pubblico non piacque, Carlo Goldoni aveva goduto nel teatro di S. Angelo una serie continua di prosperi successi e quasi di trionfi: ma l’ultima commedia del secondo anno comico, l’Erede fortunata, precipitò (Mémoires, P. II, c. 6Memorie di Carlo Goldoni). Sì che il Medebach, a cui era stato proibito nel novembre dal magistrato di rimettere in scena la Vedova scaltra, dovette chiudere il breve carnovale del 1750 recitando di seguito, la sera del 1 febbraio, la Putta onorata e la Buona moglie (v. Malamani, in Ateneo Ven. a C. G. cit., 1907, p. 30).

Tuttavia l’autore non era persuaso del giudizio popolare, e stampando due anni dopo la commedia, scriveva all’editore Bettinelli: «L’Erede fortunata non è fra le mie commedie una di quelle che abbiano più incontrato; ve ne direi anco il perchè, se qualche buona ragione non mi consigliasse a tacerlo. Chi avrà la sofferenza di leggerla, vedrà forse ch’ella non merita essere dalle altre scartata, e può darsi per quella più non si riconosca, che in scena poco felicemente fu ricevuta. Non è certamente sui più forti caratteri lavorata; ma l’argomento, la passione e l’intreccio ponno presso gl’intelligenti della Commedia sufficientemente bastare. Non voglio inoltrarmi a giustificarla presso di voi, nè presso altri che vorrà leggerla, mentre, se piace, è superfluo che io ne parli, e se non piace, vane sarebbero le mie parole».

È impossibile sapere quali modificazioni portasse il Goldoni al copione antico, prima della stampa, per cui l’Erede «appena si riconosce» (Proscritta dell’Autore ecc., in Comm., ed. Paperini, I, p. 21); ristampandola nel ’54, nell’ed. Paperini di Firenze, ebbe cura di cambiare nel personaggio di Pancrazio il mercante Pantalone, e Brighella trasformò in Trastullo, lasciando soltanto all’Arlecchino la licenza di parlare in dialetto. Ma neppure questo bando indetto alle maschere rese più fortunata la commedia, della quale non pare che gli attori e i critici facessero conto, nè allora, nè poi: sebbene ci raccontasse il Maddalena (Il Dalmata, genn. e febbr. 1892; e Lessing e G., in Giorn. Stor. d. lett. it., vol. XLVII, 1906) come in Germania il Lessing, nel 1755, leggendola nell’edizione bettinelliana, fosse tentato a cavarne certa sua Clausola del testamento, della quale restarono per caso sette scene a stampa e l’abbozzo. Non già che l’arte di Goldoni non vi si lasci intravvedere (F. Martini, nella Vita it. del 700, Milano, Treves, 1896, p. 220), specialmente nella più antica lezione col Pantalone e col Brighella, ma sono reminiscenze e variazioni del teatro a soggetto: vedasi per esempio, oltre le scene con l’Arlecchino, la sc. 7 dell’A. II, e si ricordi che il Dottore nella recita parlava bolognese. Nessun nuovo elemento, nessun vigore nuovo. Lelio è il solito cicisbeo della commedia accademica, Florindo è il bravaccio delle precedenti commedie goldoniane, rinfantocciato, la gelosia di Beatrice è sgorbiata, Pancrazio e Trastullo mancano di vivacità, l’episodio nelle tenebre, del II. A., è preso in parte dall’Uomo prudente e dai vecchi imbrogli, senza sapore. Onde a ragione il Maddalena si associò, senz’esitare, al Nicolai (Lessing e G. cit., 198) e ed pubblico del S. Angelo nella condanna inflitta all’Erede.

Ben si capisce il dolore del capocomico e del poeta, avvezzi ai trionfi;