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Se il commediografo veneziano abbia raccolto a Pisa o a Firenze, a Mantova o a Verona, oppure a Venezia, la materia per la propria commedia (v. Mémoires, P. II, ch. 7Memorie di Carlo Goldoni), è troppo difficile poter determinare. Io sospetterei piuttosto fuori, che sulle lagune, in una città di provincia, piuttosto che in una capitale. Non so immaginare una «mercantessa» di terraferma, per quanto ricca, che ambisca di penetrare in un casino di nobildonne veneziane, per confondersi col patriziato: altro modo più facile eravi a Venezia di mescolarsi alle classi più alte nei ritrovi pubblici, sotto l’abito di maschera. La società veneziana nel Settecento ha suoi usi speciali. Ma nelle città di terraferma, a Verona per esempio, abbiamo esempi storici di simili puntigli e lotte. E più probabile che Carlo Goldoni togliesse qua e là i vari elementi: gli basta ferire la società del tempo, e non quella soltanto. - Attinse pure alla satira letteraria e alla critica del costume, così comuni in quel secolo e sparse un po’ da per tutto. Non si dimentichi che i lamenti contro il lusso si leggono in ogni libro, anche nelle commedie del Lazzarini (la Senese), del Fagiuoli, del Becelli (la Pazzia delle pompe, ed. 1748); che le proteste contro il duello sorgono ormai generali (v. Nota storica del Cav. e la Dama); che il cicisbeo fu perseguitato in Italia fin dal suo nascere; che il marito bonario non è già un tipo caratteristico della decadenza veneziana, bensì fin dalla seconda metà del Seicento è oggetto di satira oltralpe, e fra noi, prima di Goldoni, serve al riso comico nei tentativi del Fagiuoli (il Marito alla moda), del Nelli (la Moglie in calzoni, ed. 1727), del Gorini; che le lodi del commercio, sdegnato per falso pregiudizio dai nobili, si odono per bocca di Landolfo (altro predecessore di don Fiorindo) nella Pazzia del Becelli; che tutte queste e altre cose, come la pietà per i servi maltrattati e il grido di rivolta degli oppressi (sc. 8, A. III), la severità un poco rustega verso la donna e la diffidenza contro il matrimonio, salgono dal cuore del Settecento e si trovano, rozzamente espresse, nelle Lettere critiche (1a. ed. 1743) del Costantini e nel romanzo del Seriman (I viaggi di Wanton, Ia. ed. 1749), che il Goldoni a Venezia non poteva ignorare.

Affermata l’importanza sociale di questa commedia, che non isfuggì a Ernesto Masi (Scelta di comm. di C. G., Firenze, 1897, t. I, 231 segg.), resta a dire dell’arte. Abbiamo già notato alcune bellissime scene: anzi quasi tutto il primo atto si delinea e si muove come un capolavoro, e sembra contenere gli altri due. Delle maschere merita applauso il vecchio Pantalone, che conserva i noti lineamenti goldoniani, ma non fu mai tanto vivo e perfetto: esempio raro, se si pensi che di lui l’autore volle fare l’interprete della coscienza morale, così noioso nelle opere d’arte. Non piace l’Arlecchino trasformato nel moretto, di moda a quei tempi. Ottime le quattro donne, e fin d’ora ci permettono di osservare la virtù meravigliosa di Carlo Goldoni di porre in atto le diverse gradazioni di un carattere somigliante: virtù che più tardi gli concederà di creare i Rusteghi. Nell’azione non mancano difetti, e specialmente nella vendetta di Rosaura. La cinica apparizione del conte Onofrio nelle ultime scene, soppressa nell’edizione Pasquali e nelle seguenti, aggiungeva una nota di riso alla fredda conclusione.

Del resto la fortuna delle Femmine puntigliose, commedia pura di carattere e di costume, senza pianto, non fu grande nè in Italia, nè fuori; e se nel Settecento furono tradotte in portoghese (Spinelli, Bibl.ia gold. cit., 251) e reci-