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LA BOTTEGA DEL CAFFÈ 231

Lisaura. Le persone che vengono da me, vengono pubblicamente.

Eugenio. Apra, via, non facciamo scene.

Lisaura. Dica in grazia, signor Eugenio, ha veduto ella il conte Leandro?

Eugenio. Così non lo avessi veduto!

Lisaura. Hanno forse giuocato insieme la scorsa notte?

Eugenio. Pur troppo; ma che serve che stiamo qui a far sentire a tutti i fatti nostri? Apra, che le dirò ogni cosa.

Lisaura. Vi dico, signore, che io non apro a nessuno.

Eugenio. Ha forse bisogno che il signor Conte le dia licenza? Lo chiamerò.

Lisaura. Se cerco del signor Conte, ho ragione di farlo.

Eugenio. Ora la servo subito. È qui in bottega, che dorme.

Lisaura. Se dorme, lasciatelo dormire.

SCENA XIII.

Leandro dalla bottega del giuoco, e detti.

Leandro. Non dormo, no, non dormo. Son qui che godo la bella disinvoltura del signor Eugenio.

Eugenio. Che ne dite dell’indiscretezza di questa signora? Non mi vuole aprir la porta.

Leandro. Chi vi credete ch’ella sia?

Eugenio. Per quel che dice don Marzio, flusso e riflusso.

Leandro. Mente don Marzio, e chi lo crede.

Eugenio. Bene, non sarà così: ma col vostro mezzo non potrei io aver la grazia di riverirla?

Leandro. Fareste meglio a darmi i miei trenta zecchini.

Eugenio. I trenta zecchini ve li darò. Quando si perde sulla parola, vi è tempo a pagare ventiquattr’ore.

Leandro. Vedete, signora Lisaura? Questi sono quei gran soggetti, che si piccano d’onoratezza. Non ha un soldo, e pretende di fare il grazioso.

Eugenio. I giovani della mia sorta, signor Conte caro, non sono capaci di mettersi in un impegno, senza fondamento di com-