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278 ATTO TERZO

Eugenio. Credetemi, Ridolfo, che questa povera donna merita compassione; è onestissima, e suo marito è un briccone.

Placida. Egli mi ha abbandonata in Torino. Lo ritrovo in Venezia, tenta uccidermi, ed ora è sulle mosse per fuggirmi nuovamente di mano.

Ridolfo. Sa ella dove egli sia?

Placida. È qui in casa della ballerina, mette insieme1 le sue robe e fra poco se n’andrà.

Ridolfo. Se andrà via, lo vedrà.

Placida. Partirà per la porta di dietro, ed io non lo vedrò; o se sarò scoperta, mi ucciderà.

Ridolfo. Chi ha detto che anderà via per la porta di dietro?

Placida. Quel signore che si chiama don Marzio.

Ridolfo. La tromba della comunità. Faccia così: si ritiri in bottega qui dal barbiere; stando lì, si vede la porticina segreta. Subito che lo vede uscire, mi avvisi, e lasci operare a me.

Placida. In quella bottega non mi vorranno.

Ridolfo. Ora. Ehi, messer Agabito. (chiama)

SCENA V.

Il Garzone del barbiere dalla sua bottega, e detti.

Garzone. Che volete, messer Ridolfo?

Ridolfo. Dite al vostro padrone che mi faccia il piacere di tener questa pellegrina in bottega per un poco, fino che venga io a ripigliarla.

Garzone. Volentieri. Venga, venga2, padrona, che imparerà a fare la barba. Benchè, per pelare, la ne saprà più di noi altri barbieri. (rientra in bottega)

Placida. Tutto mi convien soffrire, per causa di quell’indegno. Povere donne! È meglio affogarsi, che maritarsi così. (entra dal barbiere)

  1. Bett.: unisce.
  2. Bett.: La venga.