Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1909, IV.djvu/287

Da Wikisource.

LA BOTTEGA DEL CAFFÈ 277

Don Marzio. Oh, non lo vedete più.

Placida. Per carità, ditemi se lo sapete; è egli forse partito?

Don Marzio. È partito e non è partito.

Placida. Per quel che vedo, V. S. sa qualche cosa di mio marito.

Don Marzio. Io? So e non so, ma non parlo.

Placida. Signore, movetevi a compassione di me.

Don Marzio. Andate a Torino e non pensate ad altro. Tenete, vi dono questi due zecchini.

Placida. 11 cielo vi rimeriti la vostra carità; ma non volete dirmi nulla di mio marito? Pazienza! Me ne anderò disperata. (in atto di partire piangendo)

Don Marzio. Povera donna! (da sè) Ehi. (la chiama)

Placida. Signore.

Don Marzio. Vostro marito è qui in casa della ballerina, che prende la sua roba, e partirà per la porta di dietro. (parte)

Placida. È in Venezia! Non è partito! È in casa della ballerina! Se avessi qualcheduno che mi assistesse, vorrei di bel nuovo azzardarmi. Ma così sola, temo di qualche insulto.

SCENA IV.

Ridolfo ed Eugenio, e detta.


Ridolfo. Eh via, cosa sono queste difficoltà? Siamo tutti uomini, tutti soggetti ad errare1. Quando l’uomo si pente, la virtù del pentimento cancella tutto il demerito dei mancamenti.

Eugenio. Tutto va bene, ma mia moglie non mi crederà più.

Ridolfo. Venga con me; lasci parlare a me. La signora Vittoria le vuol bene; tutto si aggiusterà.

Placida. Signor Eugenio.

Ridolfo. Il signor Eugenio si contenti di lasciarlo stare. Ha altro che fare, che badare a lei.

Placida. Io non pretendo di sviarlo2 da’ suoi interessi. Mi raccomando a tutti, nello stato miserabile in cui mi ritrovo.

  1. Bett.: a fallare.
  2. Bett.: distrarlo.