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C. G. e la comm. dell’arte, Torino, 1907; C. Camerano, Il Bugiardo di papà G., Gazz. d. popolo della domenica, Torino, 23 febbr. 1908. Rientrano verisimilmente in questa rubrica le lezioni tenute sulla nostra commedia intorno al 1816 dal Beck all’Università di Halle (Masi, Studi sulla st. del tea. it., Firenze, 1891, p. 140) e da Arturo Graf nel 1904 all’Ateneo di Torino.

Tra le commedie più vive, più varie del Goldoni, ma certo non senza difetti. Arruffato, artifizioso troppo il terz’atto. Troppo uniformi nella loro antipatica volubilità e nelle gelosie vicendevoli le due sorelle, e odioso, ripugnante addirittura da ultimo il protagonista. Addosso al quale l’a., fidando ciecamente nell’opera moralizzatrice del ravvedimento finale, cui nella prima forma del lavoro prestava energico aiuto il bargello in persona (Ed. Paperini, A. III, sc. ult.), carica troppo la mano. Cade il Goldoni così in un difetto, del quale a proposito del Chiacchierone imprudente assai giudiziosamente ragiona: «Basta innamorarsi di un carattere grande, e volere in varie viste dipingerlo, facilmente si cade senz’avvedersene nella disorbitanza: e non val nemmeno il fidarsi dell’esempio di qualche originale stravagante, che ci somministri l’idea, poichè l’universale non vuole sopra le scene un vero estraordinario, ma un verisimile più comune» (Ediz. Paperini, v. VIII, p. 82). Se poi la figura incarna difetti o vizi, entra in campo anche la questione morale che, massime in Germania, ebbe sempre sì larga parte nelle critiche fatte al Goldoni. Dal Cronegk (op. cit.), ingenuamente persuaso che il castigo finale di Lelio bastasse a paralizzare i perniciosi esempi della bugia, al Werther (Römische Theater - Stagione, N. Wiener Tabhl. 17 marzo, 1897), il quale per riguardi etici lo condanna senza più al bando dalla scena, è tutto un affannarsi intorno a questo povero Lelio, bilanciare il danno che dall’abito di spiritose invenzioni potesse derivare all’umanità, e pensare ai ripari. Ma il buon senso in persona di Ludwig Tieck mise le ragioni dell’arte al di sopra di grette ubbie moralistiche, quando un Carneade della scena, per far del Bugiardo una scuola di virtù, tolse spirito e sapore alla commedia: «... così l’autore, a me ignoto, mutando gli incidenti allegri, trasformando i personaggi comici in fior di galantuomini, e all’ironia sostituendo la virtù e la morale, finì col fare d’una vera commedia una parodia in verità ripugnante». E voleva che tutt’al più si tagliasse qua e là, ma all’essenza, al carattere dell’opera nulla si togliesse, perchè «questa commedia che bisogna mettere tra i capolavori del Goldoni ritiene verità e sostanza solo se la scena è a Venezia, nè devono mancarvi la maschere. Papà Pantalone resti comico anche nel suo dolore. Commozione e persino dignità, la dignità dell’uomo onesto sì crudelmente provato, non escludono già la comicità del personaggio. Trovare tale accordo è appunto compito bellissimo d’un attore intelligente». (Kritische Schriften. Leipzig, 1898, vol. Ili, p. 219-223).

Ma doveva essere proprio commedia di carattere il Bugiardo? Chi ben guardi, non consente. Anche l’appunto mosso dal Goldoni al Corneille prova che la fantasia del poeta aveva intravvisto un’allegra commedia d’intreccio (Schmidbauer, Das Komische bei Goldoni, München, 1906, p. 21), dove la bugia - come più tardi, in un altro capolavoro, un ventaglio - metta in iscompiglio tutto un piccolo mondo. Anzi Lelio, eco affievolita del Capitano, le maschere e la scena ch’è in gran parte sulla pubblica via fanno pensare senz’altro alla commedia dell’arte (Gallico, op. cit.). Pregiudizi moralistici e pretesa di