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Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1910, IX.djvu/301

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LA LOCANDIERA 289

commediografo veneziano per aver compiuto il trionfo di Mirandolina col matrimonio di Fabrizio, mostrò di capir bene le leggi della morale, non quelle della vita e dell’arte. Nè meglio capirono questo singolare e potente capolavoro quanti traduttori o riduttori, per adattarlo al genio delle varie nazioni, lo sconciarono più o meno nelle principali lingue d’Europa. Perchè qui non soltanto l’azione si svolge con perfetta arte di teatro, non soltanto il gioco de’ caratteri e delle passioni riesce bellissimo, non soltanto il riso comico nasce diversamente da ciascuno dei diversi personaggi, ma vi sono episodi d’una dolorosa verità umana, come le sei prime scene dell’atto terzo, che reggono il confronto con Molière e con qualunque altro poeta drammatico.

La caricatura del marchese di Forlipopoli, la satira delle due comiche, appentengono al quadro di costume del Settecento e però vivono meno. Che il Goldoni volesse proprio colpire la boria di qualche nobiluomo spiantato, di qualche barnaboto, si può mettere in dubbio, essendo ormai consuetudine anche in Italia, sul palcoscenico (Fagiuoli, Gorini Corio, Becelli ecc.) e fuori, la rappresentazione ridicola della nobiltà affamata. (Ne esagerarono l’importanza sociale Ugo Müller, cit. da E. Maddalena, La Locandiera, in Giorn. ligustico, XX, 1893, p. 390; Vernon Lee, Il Settec. in it, Milano, II, 270; e forse il Maddalena stesso, 1. c,). Ricordiamo per tutti il conte Ottavio nella Castalda: sebbene qui più arguta e più intera, senza volgarità, fin dall’alzarsi della tela si stacchi la magra figura del Marchese, a cui di rincontro piantasi, facendo risonare i suoi zecchini, il recente conte d’Albafiorita: «... Sì, Conte! Contea comprata. - Io ho comprata la contea, quando voi avete venduto il marchesato ecc.» — Ortensia e Dejanira, cioè, sul teatro di Sant’Angelo, Caterina Landi ed Eleonora Falchi, servivano a compiere la pittura della locanda, il carattere del Cavaliere e la vittoria di Mirandolina. («...Immaginate dal G.» osservò Giulio De Frenzi «perchè lumeggiassero più brillantemente, mediante la loro ottusa venalità di donnette facili, la scaltra civetteria di Mirandolina. Senza quelle due macchiette il quadro scenico perde il suo equilibrio, e l’intenzione dell’artista è tradita»: Per il 2.o cent.io della nascita di C. G. il Teatro A- Manzoni, Milano, 1907, p. 13). Quanto a Fabrizio (sulla scena il brighella Marliani) il quale, a guisa di molti critici, non riesce a capire la bella locandiera, è personaggio troppo importante, perchè occorra richiamarvi a posta l’attenzione. — Ricercare poi che cosa storicamente e artisticamente rappresentino, nel secolo della Pompadour, del Casanova e di Laclos, Mirandolina e il cavaliere di Ripafratta; ridestare Manon e Des Grieux, la Maerianna e Pamela, Cleveland e Lovelace; ricordare le altre donne goldoniane e dire come e perchè differiscano da quelle di Molière; analizzare la vendetta di Mirandolina e la passione del Cavaliere nella vita e nella commedia, ci trarrebbe troppo lontani da un’umile Nota.

Strano che il pubblico da principio non si accorgesse di questo capolavoro, e che nemmeno l’autore ne avesse piena coscienza. La Locandiera non suscitò il grido della Vedova scaltra, della Pamela, del Molière, della Sposa Persiana, checchè affermino le Memorie (P, II, ch. 6): restò anzi un po’ confusa fra le minori sorelle. Pochi la ricordarono. Il Beregan appena la nomina («L’accorta Locandiera, i Mercanti, il Tutore ecc.» Museo di Apollo, 1754); appena la nomina Alvise Foscarini («La Dama e il Cavaliere, e la Serva