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IL MOLIERE 35
E i cittadin più colti e il popolo gentile

L’ore perdea1 preziose in un piacer sì vile:
Gl’istrioni più abietti venian d’altro paese,
A ridersi di noi, godendo a nostre spese;
Fra i quali Scaramuccia, siccome tutti sanno.
Dodicimila lire si feo2 d’entrata l’anno;
E i nostri cittadini, con poco piacer loro,
Le sue buffonerie pagarno a peso d’oro.
Tratto dal genio innato e dal desio d’onore.
Al comico teatro died’io la mano e il cuore;
A riformar m’accinsi il pessimo costume,
E fur Plauto e Terenzio la mia guida, il mio lume.
L’applauso rammentate dell’opera mia prima:
Meritò lo Stordito d’ogn’ordine la stima;
E il Dispetto amoroso e le Preziose vane
Mi acquistarono a un tratto l’onor, la gloria, il pane.
E si sentì alla terza voce gridar sincera:
Molier, Molier, coraggio; questa è commedia vera.
Valerio. Per tutto ciò dovreste gioia sentir, non pena,
D’aver lasciato il Foro per la comica scena.
Coraggio, anch’io ripeto, coraggio.
Moliere.   Sì, coraggio.
Mi dà ragion d’averlo il popol grato e saggio.
(lo dice per ironia)
Quel tale Scaramuccia, di cui parlai poc’anzi.
Andato era a Firenze co’ suoi felici avanzi.
Lo maltrattaro i figli, lo bastonò sua3 moglie;
Ei lasciò lor suoi beni, per viver senza doglie;
E tornato a Parigi a ricalcar la scena.
Le logge e la platea, ecco, di gente ha piena.
Il pubblico che avea gusto miglior provato,
Eccolo nuovamente al pessimo tornato.
E in premio a mie fatiche (perciò arrabbiato i’ sono)
Corrono a Scaramuccia, lascian me in abbandono.

  1. Così in tutte le edd.
  2. Bett. e Pap.: fe'.
  3. Bett. e Pap.: la.