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Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1910, VIII.djvu/342

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328 ATTO PRIMO

SCENA V.

Ottavio e Pantalone.

Ottavio. Rompere le braccia al mio servitore? Potrebbe darsi che io rompessi la testa al suo.

Pantalone. Servitor umilissimo, sior Conte mio paron.

Ottavio. Signor Pantalone, vi riverisco. (con cera brusca)

Pantalone. Xela in collera?

Ottavio. Ho ragione di esserlo.

Pantalone. Con mi no, nevvero?

Ottavio. Voi siete un buon amico.

Pantalone. M’ha dito qualcossa sior conte Lelio.

Ottavio. Egli è un pazzo.

Pantalone. Cossa vorla far? No la gh’ha altri al mondo, che sto nevodo.

Ottavio. Sarebbe meglio che io non l’avessi.

Pantalone. Bisogneria po che la se maridasse ela, per conservar la casa.

Ottavio. Che cosa importa il conservare la casa? Morto io, morti tutti. La mia roba so a chi lasciarla.

Pantalone. Ogni tanto sento sti manazzi de lassar la roba fora de casa. Sta cossa no la posso sentir.

Ottavio. Della roba mia posso fare quello che io voglio.

Pantalone. Xe vero: de la so roba la pol far quel che la vol; ma i omeni de giudizio i sacrifica la so volontà alla giustizia e alla convenienza. Per che rason voravela privar i nevodi, per beneficar dei stranieri? Per paura fursi, che i nevodi sia ingrati, e no i se recorda del benefattor? Per l’istessa rason, se pol desmentegar più presto del testator chi no xe del so sangue.

Ottavio. Sapete che cosa mi ha mandato a dire mia cognata per suo figliuolo? Che vuole che io licenzi Brighella mio servitore.

Pantalone. No l’averà dito che la vol, ma che la desidera.

Ottavio. Come ci entra ella con i miei servitori?