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116 ATTO TERZO

Eufemia. Venite con noi, marito mio.

Pantalone. Andè, che vegnirò.

Gismondo. Vi servirò io, signora. (dà braccio a donna Eufemia)

Pantalone. (Guarda un poco donna Eufemia, poi seguita ad abbracciare lo scrigno.)

Gismondo. Non avete già dispiacere ch’io serva vostra moglie?

Pantalone. Sior no, no son zeloso.

Eufemia. Marito mio, vi prego volermi bene.

Pantalone. Sì, ve ne voggio, ve ne vorrò, ma lasseme un poco in quiete per carità.

Eufemia. Andiamo, signor don Gismondo, lasciamolo in pace; qualche cosa conviene ancora soffrire; ma s’egli non mi tormenta più colla gelosia, sono la più contenta donna del mondo. Benedirò le lagrime che ho versate, se queste mi hanno acquistato il bel tesoro della pace, della tranquillità, dell’amore. (parte)

Gismondo. Bel carattere di moglie onesta. Misero Pantalone, aveva egli in due passioni diviso il cuore, ora una sola con maggior empito lo tiranneggia. (parte)

Dottore. Genero amato, venite con noi. Non lasciate sola la vostra consorte.

Pantalone. Mia muggier no gh’ha bisogno de mi.

Dottore. Sia ringraziato il cielo! ha lasciato una volta la gelosia; se poi è avaro, pazienza. Almeno non tormenterà più la mia figliuola. (parte)

SCENA XIX.

Pantalone solo.

Mia muggier coll’auditor... e per questo? mia muggier xe una donna onorata. L’ho scoverta, l’ho cognossua; no ghe voggio pensar. Povero scrigno! questo xe quello che me sta sul cuor. Mi giera combattù da do passion: dalla zelosia e dall’amor dell’oro. La maledetta zelosia la me xe passada, l’amor dell’oro me cresse. Ho venzo la zelosia per rason del disinganno; chi poderà disingannarme che l’oro no sia adorabile? Sì, l’amerò