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266 | ATTO SECONDO |
SCENA XII.
Traccagnino, poi Florindo.
Traccagnino. Evviva. Adesso che ho assicura el disnar, stago ben. Me confido che in cusina gh’è el me paesan. Ma chi sa se in cusina arriverà gnente de quel della tola. Gh’è el me patron che el magna per quattro.
Florindo. Gran seccatura ha da essere oggi per me! Star a tavola un’ora con soggezione! Ma non ci sto. Dicano quel che vogliono, io non ci sto.
Traccagnino. Chi èlo sto sior, che nol cognosso?
Florindo. Amigo, siete voi di casa?
Traccagnino. Per adesso son in casa.
Florindo. Fatemi un piacere; dite a questi signori che compatiscano, ch’io a tavola non ci voglio venire.
Traccagnino. Elo anca vussioria dei invidadi?
Florindo. Sì, ancor io; ma a tavola con soggezione, con compagnia, con donne, io non ci posso stare.
Traccagnino. Ala facoltà de sostituir nissun al so posto?
Florindo. Che vorreste dire?
Traccagnino. Se la podesse farme la grazia, che mi andasse per ela.
Florindo. Chi siete voi?
Traccagnino. Son el servitor de sior Ottavio.
Florindo. Figuratevi se quei superbi, se quelle delicatine di donne vi vorranno: non si degnano di gente bassa.
Traccagnino. Vussioria se degneravela?
Florindo. Io sì: mangio sempre con i miei contadini.
Traccagnino. Se poderave far una cossa.
Florindo. Che cosa?
Traccagnino. La se fazza mandar da magnar in cusina, che mi averò l’onor de servirla de compagnia.
Florindo. Se lo volessero, perchè no?
Traccagnino. Son servitor, ma son galantomo, sala.
Florindo. Sì, tutti gli uomini sono compagni. Io amo tutti, ma non posso soffrire la soggezione.