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296 | ATTO TERZO |
Ottavio. Eccola, mia principessa, mio nume.
Clarice. Adagio, signori miei.
Argentina. Anche questo adagio ve l’ha messo, che non vi è.
Clarice. Questa scena non mi piace punto.
Argentina. La finisca, signora; tocca a lei a parlare, (a Clarice)
Clarice. Sentiamo come conclude. Giovine prudente e saggio... A chi lo dico? (ad Argentina)
Argentina. Al signor Fiorindo.
Clarice. Giovine prudente e saggio, accordo ancor io che l’affettazione sia ridicola in ogni grado, ma se voi foste disposto a moderare il vostro costume, trovereste in me una sposa condiscendente.
Florindo. Tocca a me? (ad Argentina)
Argentina. Sì, a lei.
Florindo. La cosa si può dividere metà per uno. Discendete voi un gradino dalle vostre pretensioni, mi alzerò io un poco sopra le mie; ed avvicinandosi le nostre massime, si potrebbero unire le nostre mani.
Clarice. Sono pronta a porgervi colla mia destra...
Pantalone. Adasio, pian, patroni. Adesso mo tocca a mi a dirlo.
Argentina. Questo adagio, questo piano, non vi è nemmeno nella vostra parte. Lasciatemi terminar la commedia, che tocca a me. Signor Anselmo, voi mi avete data la mano: son vostra sposa; ad esempio vostro hanno fatto lo stesso quelle due dame coi loro amanti. Ecco, la commedia è finita. Voi non siete più Anselmo, ora siete il signor Pantalone. Un matrimonio che fatto avete con me per finzione, vi vergognereste di farlo con verità? Se mi avete sposata in toscano, mi discacciate voi in veneziano?
Pantalone. No, fia mia; anzi con tanto de cuor in tel mio lenguazo ve digo che ve voggio ben, e che ve dago la man e el cuor, no in olocaustico, nè in fontanella, ma un cuor tanto fatto, schietto, sincero, e tutto quanto per vu.
Argentina. Buono. Dunque fra voi e me siamo passati dal falso