Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1910, X.djvu/416

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Goldoni dedicò nel ’58 le Massere) non merita lungo discorso; basti dire che nel Fil. ingl. «Gh’e verità, gh’è intreccio, gh’è arte e gh’è natura». Più curiosa e insolente quella, non più in dialetto, di don Mattio Fiecco, accademico granellesco (il Pubblicano), contro il quale ribattè infastidito S. E. Baffo con la sua musa plebea: «Ma quando che alla mia resposo avea Goldoni, — Che bisogno ghe giera de seccar più i...?» — Pare non lo udisse il marchese padovano Ferdinando degli Obizzi, o non seppe negarsi il gusto di far trotterellare anche i suoi martelliani: «Una lunga Commedia, che tiene in attenzione — Per dicidotto (sic) sere dieci mila persone, — Convien che ne’ caratteri non abbia storpiatura, — E che osservi le leggi dell’Arte e di Natura ecc. ecc.». Saltiamo all’anonimo autore delle Osservazioni critiche sopra le Commedie nuove fatte dalli S.S. Goldoni e Chiari in quest’a. 1754: il quale non scontento, nè in tutto contento, non riesce a mandar giù quei quaccheri. (Quest’ultimo componimento stampò G. Ortolani, Della vita e dell’arte di C. G., Ven., 1907, in Appendice: trovasi ms. con tutti gli altri nel cit. cod. Cicogna, già di proprietà del libraio Amedeo Swajer). — Insomma si può concludere che «una selvetta di penne», come direbbe Carlo Gozzi, si sollevò a difendere l’opera del buon Dottor veneziano. Il male fu che il vespaio suscitato dall’imprudente mossa del Baffo durò più a lungo; e che i settenari a coppie, fitti e sonanti come granuola, finirono per molestare donne e uomini, d’ogni età e d’ogni condizione, sulla gioconda laguna.

Convien avvertire che non prima del ’57 fu stampata la commedia: forse la lettura avrebbe mostrato la poca vivacità dei personaggi che parevano interessanti alla recita. Noi possiamo facilmente immaginare come un filosofo del Settecento sarebbe sorto dalla fantasia comica d’un novello Aristofane, o anche di Beniamino Jonson o di Molière; ma il Goldoni volendo offrire un campione di virtù morali (v. L’Aut. a chi legge), riuscì freddo e falso, nè seppe ridere di madama Brindè, nè fare la caricatura di Emanuel Bluk e di maestro Panich. Proprio ora che il Goldoni lascia da un canto le maschere, esce dal naturale per cadere nel convenzionale e nel fittizio; si smarrisce in un mondo che non conosce. Questo dunque è il difetto della commedia, come nella Sposa persiana, che l’autore si mette a inventare, a lavorare di immaginazione per descrivere ciò che non ha visto e a cui non ha la forza di dar vita. Ma il Fil. ingl. piacque perchè, prima di tutto, è «Si onesto che morale, che sin cottole e tonache — Portaronsi a vederlo, e recitassi a monache» come disse un altro schiccheratore martelliano (Relazione dei Teatri all’Amico N. N. in campagna, del Sig. Giuseppe Catti, cod. cit.); e poi perchè l’argomento, i caratteri, i costumi, la satira appagavano il desiderio e la curiosità dei contemporanei. E anche oggi serve per certi suoi indizi allo studioso del passato. Non dirò quanta fortuna avesse nel Settecento il nome di filosofo, di cui si adornavano scienziati, letterati, avventurieri e fannulloni di ambo i sessi, con significato un po’ largo. E dove mai non entrava la filosofia? Ancora più che il teatro, ne erano pieni i romanzi, per tacere i poemi (anche morto nel 1741, Pope continuava a imperare). Racconta il vecchio G. nelle malfide Memorie (P. 2, ch. XXI) di essersi inspirato allo Spettatore inglese, che a sua detta spacciavasi e leggevasi in quel tempo a Venezia, ma si badi che quel foglio non fu mai tradotto in italiano e che la versione francese (1714)