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354 ATTO TERZO
Di Romolo son figlio, padre di Roma anch’io:

L’onor deggio del Lazio serbar nel tetto mio.
A schiavo non consente unir legge sovrana,
Maggior d’ogni grandezza, il cuor d’una Romana.
Livia. Per prova o per ischerno dunque parlasti, o padre.
(mortificata)
Lucano. No; di Terenzio sposa, d’eroi ti voglio madre.
Livia. Come, signor? (rasserenandosi)
Lucano.   M’ascolta. Pria che l’odierna luce
Spenga nel sen di Teti dell’aureo cocchio il duce,
Libero per mio dono il vate valoroso
Di me sarà liberto, di Livia sarà sposo.
Livia. E d’uom nato straniero, d’uom che fra’ ceppi langue,
Cambiar può nelle vene l’atto solenne il sangue?
Lucano. Lo può.
Livia.   Nè più gli resta, mercè di Roma amica,
Alcuna macchia in seno della viltade antica?
Lucano. Nel fausto lieto giorno purissimo rinasce,
Qual di Romana figlio che bamboleggia in fasce.
Livia. Sapienza degli Dei! Bella pietà di Roma! (con letizia)
Lucano. Ma sciolta di catene dal piè la dura soma,
Se Livia ancor lo sdegna, con lei non infierisco.
Livia. Al padre che comanda, oppormi io non ardisco;
Ma poi...
Lucano.   Sarai contenta.
Livia.   Ma poi, dicea, signore,
Se libero lo rendi, di lui qual sarà il cuore?
Spesso del benefizio dagli uomini s’abusa...
Lucano. Dov’è la greca schiava?
Livia.   Nelle mie stanze è chiusa.
Lucano. Per qual ragion si cela? Fugge da me?
Livia.   Ricama.
Lucano. Qui venga.
Livia.   Intenta all’ago...
Lucano.   Venga, il signor la chiama.