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improvvisato, un suo connazionale, Elia Fréron, sempre benevolo al Goldoni perchè mosso anche da ragioni tutte sue, aveva questa volta misurato la lode. Povera gli pareva l’azione nei Malcontenti e ignobili i caratteri. «Il est vrai qu’au milieu de ces trivialités, on trouve des étincelles de génie. D’ailleurs, Goldoni a le rare mérite d’être naturel et varié; il imagine, il crée; s’il sacrifioit moins au goùt du peuple, il pourroit faire beaucoup plus de progrès dans son art» (Année littéraire, 1761, voi. II, p. 211). Accettiamo deferenti il biasimo e la lode. Ma che dire della lezioncina finale (con la benevola previsione di possibili progressi) a un autore che contava cinquantaquattro anni d’età e nel suo patrimonio letterario una dozzina di mirabili capolavori da onorarsene la più esigente delle nazioni!?... Fra le scintille del genio il Fréron comprendeva forse il primo delizioso duetto, tutto colpi di spillo, fra Felicita e Leonide, non indegno di star accanto alla celebre scena delle Smanie fra Vittoria e Giacinta (atto III, se. 12: cfr. Targioni-Tozzetti, op. cit., p. LXXVI), e pensava forse ancora alla scena della lettura della commedia, tanto viva e vera nelle varie figure che vi agiscono. Fra le quali ferma l’attenzione di più d’un critico quella di Policarpio, introdotta con mossa magistrale (a. I, sc. VI). «Prendete — scrive il Giovagnoli — la quasi obliata, eppur così viva e così bella commedia I Malcontenti, ed esaminate il carattere del pacifico, sciocco e neghittoso Don Policarpio; egli è vero, egli è umano. Eccolo, sempre a zonzo per la casa, detestatore delle brighe e dei pensieri, amante della quiete, dei comodi, degli agi, rispettoso, quasi timoroso, di suo fratello, che è quegli che amministra e governa gl’interessi della famiglia. Lasciatelo andare posatamente a passeggio, con un cartoccio di datteri in saccoccia, lasciatelo pranzare tranquillamente alla sua ora consueta; non gli interrompete il beato dormiveglia della digestione con reclami angustianti, con osservazioni fastidiose, neppure con l’ombra della più lieve cura domestica;... ditegli di venire in villeggiatura, al teatro, ad una allegra casetta... egli ci verrà; ci verrà pro bono pacis, anche a danno delle sue abitudini... purchè tutto ciò non abbia da costargli il menomo pensiero, la più piccola preoccupazione... perchè egli è un egoista, un poltrone, la cui sola e vera felicità consiste nel potersi raggomitolare fra le molli piume della sua pacifica vegetazione. E quanto palpito di nervi, quanta vigoria di vita in questa fibra inerte e sonnacchiosa!» (Meditazioni di un brontolone. Roma, 1887, pp. 212, 213). Piace la figura di Policarpio all’Ortolani (op. cit., p. 88); piace al Dejob massime l’idea prima, che gli sembra anche originale, ma solo perchè non ricorda l’Ottavio del Tutore, «uomo dato alla poltroneria» (Dejob, Les femmes dans la comèdie ecc., Paris, 1899, p. 266). Per i richiami alla letteratura d’oltre Manica il G. dedicò questa sua commedia dei Malcontenti a John Murray, Residente a Venezia dal dic. 1753, come al cognato suo. Gius. Smith, console, aveva intitolato il suo pesantissimo e infelicissimo Filosofo. L’appartenenza alla massoneria, per il Goldoni verosimile ma non certa, avrà cementato più solidamente l’amicizia tra il poeta e i due inglesi (cfr. vol. IX, p. 369 di quest’edizione). Secondo il Casanova, che col Murray si vanta di essere stato intimo, questi, bell’uomo, pieno di spirito, dotto, sarebbe stato amantissimo del bel sesso e compagno di dissolutezze al famoso avventuriere. (Mémoires, Bruxelles, 1881, vol. II, p. 493, vol. III, 15). Anche il modo, onde se ne parla nelle lettere di Lady Montagu (non corsero però tra i due buoni rap-