Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1911, XIII.djvu/194

Da Wikisource.
188 ATTO TERZO


Arlecchino. (A vu mo tocca a farla ancora più bella). (a Jacopina)

Jacopina. (Lasciate fare a me, che la vo’ condire). (ad Arlecchino) (Mi vo’ godere le mie padrone, che si credevano essere servite dall’illustrissimo signor Conte). (da sè, e parte)

Nibio. Non vo’ che i miei figliuoli si arricchiscano colla bugia: sono un uomo d’onore, e tal sarò fin che io viva. (parte)

Arlecchino. Voggio andarmelo a goder anca mi sior Conte. Oh, quanti de sti Conti incogniti, se se podesse veder de chi i xe fioli, i deventerave tanti Pasquali. (parte)

SCENA XV.

Sala con tavola apparecchiata.

Don Eraclio, il Dottore, poi donna Claudia e donna Metilde.

Eraclio. Già il Conte mi ha detto ogni cosa. Si parlerà dopo desinare.

Dottore. Dopo desinare? Si potrebbe dir dopo cena. Poco manca alla sera, ed io, per dirla, ho lo stomaco rovinato.

Eraclio. Avrete modo di confortarlo. Voi altri siete avvezzi a mangiare per tempo. So che gli antichi cenavano solamente, ed io mangio sempre coi lumi.

Claudia. Ecco a che siamo ridotti, per cagione delle vostre pazzie.

Eraclio. Non mi guastate ora il piacer della tavola.

Metilde. Finalmente il signor Conte non è un villano.

Eraclio. Mi farò dir meglio le cose della casa sua, e chi sa, se noi discendiamo da Ercole, ch’ei non discenda da Deianira?

SCENA XVI.

Il Conte, Carlotta e detti.

Conte. Eccoci qui a godere delle vostre finezze.

Carlotta. A quest’ora si desina? A quest’ora, in villa da noi...

Conte. In campagna si fan le cose diversamente. (Finitela con questa villa). (piano a Carlotta)