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L'AVARO | 425 |
la dote in nastri e cuffie, vuole spogliarmi di quel poco che mi è restato. (al procuratore)
Eugenia. Mi maraviglio di voi, signore. (a don Ambrogio)
Ambrogio. Ed io di voi.
Cavaliere. Zitto, signori miei. Lasciatemi dir due parole, e vediamo se mi dà l’animo di accomodar la faccenda con soddisfazione di tutti.
Ambrogio. Questo povero giovane mi fa compassione. (verso don Fernando)
Fernando. Per me non c’è caso. Ha detto che non mi vuole.
Conte. Si farà una lite per donna Eugenia, ed io m’impegno di sostenerla.
Cavaliere. No, senza liti. Ascoltatemi. Il povero don Ambrogio, che ha tanto speso, non è dovere che si rovini colla restituzion di una dote. Questa dama non ha da restare nè vedova, nè indotata, e nè tampoco impegnar si deve una lite lunga, tediosa e pericolosa. Facciamo così: ch’ella si sposi con un galantuomo, che oggi non abbia bisogno della sua dote; che questa dote rimanga nelle mani di don Ambrogio fino ch’ei vive; che corra a peso di don Ambrogio il frutto dotale al quattro per cento; ma questo frutto ancora resti nelle di lui mani, durante la di lui vita. Alla sua morte, la dote e il frutto, e il frutto de’ frutti, passi alla dama, o agli eredi suoi, e per non impicciare in conti difficili l’eredità di don Ambrogio, in una parola, goda egli tutto fin a che vive, e dopo la di lui morte, non avendo egli nè figliuoli, nè nipoti, costituisca donna Eugenia erede sua universale. Siete di ciò contento? (a don Ambrogio)
Ambrogio. Non mi toccate niente, son contentissimo.
Cavaliere. Voi, donna Eugenia, che dite?
Eugenia. Mi riporto ad un cavaliere avveduto, come voi siete.
Cavaliere. Quando troviate oneste le mie proposizioni, eccovi in me il galantuomo, pronto a sposarvi senza bisogno per ora della vostra dote.