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Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1911, XIII.djvu/471

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L'AMANTE DI SÈ MEDESIMO 463
Alberto. E questa la se umilia, questa sa far de più

De tutte le altre donne.
Conte.   È una bella virtù.
Alberto. Via, andemola a trovar; no fè che la zavaria.
Conte. Mi ha mandato a chiamar madama commissaria.
Alberto. E vorressi lassar per sto pettegolezzo
Una putta de un cuor, che al mondo no gh’ha prezzo?
Conte. Per dirvi quel ch’io penso, da amico confidente,
Dal cuor di donna Bianca son tocco internamente.
Ma ora s’io venissi a ragionar con lei,
La sentirei a piangere, e mi rattristerei.
Fate così: trovato, dite, che non mi avete;
Ditele che sperate, che alfin mi conoscete.
Che son un che si placa, quando un amico parla;
Cercate a poco a poco la via di consolarla.
Quando sarà calmata, verrò più volentieri.
Vedrem se son costanti frattanto i suoi pensieri.
Non dico ch’io pretenda ch’ella perdon mi chieda,
Ma dite che non pianga, che taccia e che mi creda.
Intanto da madama vo a trattenermi un poco:
Non vado per amore, vadovi sol per gioco.
Vado, perchè la visita è da madama attesa.
Se nol sa, donna Bianca non può chiamarsi offesa.
Non fo che a me scemare la noia di quel pianto.
Finchè voi la placate, vo a divertirmi intanto.
Quando si può un momento aver di quiete al mondo,
S’ha da lasciar per piangere? Signor no, vi rispondo.
Io sono un galantuomo, farò quanto vi dico;
Ma voglio divertirmi. A rivederci, amico. (parte)

SCENA VI.

Signor Alberto solo.

Con tutta l’amicizia, sì per diana de dia,

Che sto caro sior Conte quasi lo mandaria.
Mi che son de buon cuor, che là son arlevà,