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Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1911, XIII.djvu/499

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L'AMANTE DI SÈ MEDESIMO 443
Commissario. Si può veder.

Martini.   Mi pare... (osservando fra le scene)
Commissario.   Il Conte è quel che viene.
Martini. So che è un buon cavaliere, che inclina a far del bene.
Perchè gli parli, il caso mi guida in queste soglie.
Commissario. No, sospendete, amico; gli parlerà mia moglie.
Martini. (Al suono delle doppie facile lo trovai). (da sè)
Commissario. (Cento doppie di Spagna non le ho vedute mai).
(da sè)

SCENA II.

Il Conte e detti.

Conte. (Il commissario è qui; so che vorrà seccarmi.

Diedi la mia parola. Difficile è il sottrarmi). (da sè)
Commissario. Servo del signor Conte.
Martini.   Servitore divoto.
Commissario. E giunto il feudatario, credo vi sarà noto.
Conte. Sì, signor, l’ho veduto. Si è desinato insieme.
Commissario. Tanto meglio. Sapete, signor, quel che mi preme.
Anzi al rispetto mio, che protettor vi chiama,
I complimenti ancora unisco di madama.
Conte. Ringraziate madama; ditele che perdoni,
Se non verrò da lei, perchè ho le mie ragioni.
Commissario. Siete padron di casa, quando venir vogliate.
Martini. Oggi, domani e sempre, quando vi piaccia, andate.
Conte. Se andar io vi volessi, non prenderei consigli.
(al signor de’ Martini)
Commissario. Signor Conte amatissimo, vicino è il mio periglio.
Martini. Anche di me, signore, che sono uomo onorato,
So che il signor Marchese è male impressionato;
E per repristinarmi nel cuore del padrone,
Ardisco d’implorare la vostra protezione.
Conte. Oh, il signor de’ Martini parla assai civilmente;
Il solito suo caldo calmò placidamente.