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228 ATTO QUARTO
Per te mi spiace che, se ben nol meriti,

Ti porto amore, ed in periglio or veggoti.
Panfilo. Eh, tu non sai, Placida mia, qual splendere
Vegga or nel buio stella lucidissima
Che mi conforta, ed a sperar conducemi.
Placida. A chi ti è fida, il tuo pensier comunica.
Panfilo. Vedesti tu quella gibbosa vecchia
Che parlò meco, e del padron va in traccia?
Placida. Sì, la vid’io.
Panfilo.   Codesta fu la balia
Che allattò il parto di messere, e dicemi
Che il parto vive al genitore incognito,
E di più disse che qui seco or abita.
Esaminando fra me stesso i termini
Di cotal donna e i casi miei preteriti,
Con fondamento mi lusingo e giudico
Esser io quel che da lui ebbe l’essere.
Placida. Se ciò fosse, perchè vorrebbe ascondere
Messer Luca nel servo il proprio figlio?
Panfilo. Esser può ch’ei nol sappia, o ancor che sappialo,
Occulti fini a me celar l’induchino.
E non sarebbe già fuor di proposito
Che quell’amor che Caterina rendegli
Cara cotanto, preferir facessegli
Al proprio sangue una fanciulla estrania.
Placida. Ve’ dove mai a ragionar conduceti
Con sì lieve principio il cuor, che facile
Crede quel che sovente a se desidera.
Se della vecchia i detti per veridici
Prender vogliamo, può cadere il dubbio
Su Caterina.
Panfilo.   Or sì, che allo sproposito
Pensi e favelli, e credo che l’invidia
Del ben ch’io spero, a delirare inducati.
Placida. Mal di me pensi.