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330 ATTO QUINTO

SCENA V.

Don Flavio, poi il Conte.

Flavio. Sì, me la renda, e veggami, senza bagnare il ciglio,

Per sua cagione esposta la perfida al periglio.
Se brama la mia morte, al ciel rivolga i voti,
Perchè del mio nemico non siano i colpi vuoti.
Ancor temo a ragione, ch’ell’ami un mio rivale,
E brami nel mio seno il colpo micidiale.
Se a me fida ancor fosse, se amasse la mia vita,
Del tutto1 che mi fece, la vederei pentita.
Se dura nell’orgoglio, se è salda nello sdegno,
Che m’odia, che mi sprezza, che mi vuol morto è un segno.
Ecco il conte Roberto. Sollecito sen riede.
Chi sa ch’egli non l’ami, e manchimi di fede?
È ver, parlommi in guisa che sembra un uom sincero,
Ma studia chi tradisce di mascherare il vero.
Il cuor di donna Florida mi par che sia occupato:
Il Conte a lei si vede sollecito tornato.
Don Claudio fu geloso di lui più che di me:
Che avveri il mio sospetto difficile non è.
Conte. Eccomi, ov’è la dama?
Flavio.   A lei perchè tornate?
Conte. Mi giunse un suo comando.
Flavio.   Che frequenti ambasciate!
Con voi, se così spesso gode trovarsi insieme,
La vostra compagnia si vede che le preme.
Conte. E della sua bontade un generoso effetto.
Amico, vi continua di me qualche sospetto?
Flavio. Non ho ragion di averlo?
Conte.   Io crederei di no.
Flavio. Dunque andar vi consiglio.
Conte.   Per or non partirò.
La dama mi domanda, e me ne andrò allorquando

  1. Ed. Zatta: del torto.