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Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1912, XV.djvu/227

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L'APATISTA 219
Giacinto.   Non signore. Sto qui con sofferenza.

(con qualche timore)
Cavaliere. Prima di passar oltre, dilucidiamo il fatto.
Voi col signor Giacinto formaste alcun contratto?
(al Conte)
Conte. Non mi ricordo bene.
Giacinto.   Se non vi ricordate,
Il contratto l’ho meco; eccolo qui, mirate.
(mostra il foglio al Conte)
Cavaliere. Il carattere è vostro?
Conte.   È mio, non so negarlo.
Ma ho fatto quel che ho fatto, senza intenzion di farlo.
Cavaliere. Lo faceste dormendo?
Conte.   Pur troppo er’io svegliato.
Venne questo signore furioso indiavolato;
Non mi vergogno a dirlo, sono un pochin poltrone,
E ho fatto per paura la mia sottoscrizione.
Che ciò sia ver, mirate, che cifera è codesta?
Cavaliere. Un C. ed un P.! la cifera è chiara e manifesta;
Il Conte Policastro rilevasi a drittura.
Conte. No, quel C. con quel P. voglion dir con paura.
Giacinto. Non soffrirò l’oltraggio, sia frode, ovver pazzia.
Prometteste la figlia, e la figliuola è mia.
Conte. Sono tre i pretensori; io lascio, in quanto a me,
Per contentar ciascuno, che si divida in tre.
Giacinto. Quai sono i miei rivali?
Conte.   Eccone uno qui.
(accennando il Cavaliere)
Giacinto. Il Cavalier? (con ammirazione)
Cavaliere.   La cosa non sarà poi così.
È ver che un testamento a lei mi ha destinato,
Ma di seguirlo ancora non trovomi impegnato.
Giacinto. Strano pareami al certo, che ardisse in faccia mia
Accendermi un rivale di sdegno e gelosia.
Non soffrirei l’insulto, signor, ve lo protesto.