Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1912, XV.djvu/243

Da Wikisource.

L'APATISTA 235
Ma appunto questi titoli, che voi mi rinfacciate,

Hanno le mie ragioni contro di voi formate.
Giacinto. Il dover non v’insegna?...
Contessa.   M’insegna il mio dovere
L’affetto, l’attenzione gradir di un cavaliere;
Ma il mio dover istesso, con vostra buona pace,
M’insegna a licenziarlo, se agli occhi miei non piace.
Giacinto. Possibil che vi spiacciano queste guance vermiglie,
Che sospirare han fatto vedove, spose e figlie?
Contessa. Veggo le belle guance tinte di bianco e rosso.
Quelle bellezze ammiro, ma sospirar non posso.
Giacinto. E gl’illustri natali?...
Contessa.   Li venero e rispetto,
Ma obbligar non mi possono a risentirne affetto.
Giacinto. Sì, che ponno obbligarvi; o sposa mia sarete,
O cospetto di bacco, voi me la pagherete.
Contessa. Che pretension ridicola! adagio, padron mio,
Che se voi cospettate, so cospettare anch io.
Non giunge a spaventarmi un così folle orgoglio;
In faccia apertamente vi dico, io non vi voglio.
Giacinto. Ah, perchè un uom non siete? Vorrei questa parola,
Vorrei quest’insolenza farvi tornare in gola.
Contessa. S’uomo foss’io, cospetto! vi pentireste, amico:
Vorrei farvi vedere, ch’io non vi stimo un fico.
Giacinto. A me codesto insulto? A me che furibondo,
Quand’ho la spada in mano, faccio tremare il mondo?
Contessa. A voi, che mi parete un capitan Coviello.
Giacinto. Ah, il diavol mi tenta...
(mette mano nella guardia della spada)
Contessa.   Rispettate una dama,
O con questo coltello... (prende un coltello di tavola)
Giacinto.   Eh, ho scherzato, madama.
(mostrando paura)
Contessa. Partite immantinente.
Giacinto.   No, ch’io non vuò partire, (con forza)