Vai al contenuto

Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1912, XV.djvu/244

Da Wikisource.
236 ATTO TERZO
Contessa. Andate, o giuro al cielo...

Giacinto.   Parto per obbedire.
(con umiltà e timore)
Contessa. A un incivil par vostro restar non si permette.
Giacinto. (Vuò meditare un colpo per far le mie vendette).
Contessa. Deggio farvi partire, come voi meritate?
Giacinto. Siete bella e vezzosa, ancor se vi sdegnate.
Alla mia tracotanza chiedovi umil perdono.
(Se non so vendicarmi, quello non son ch’io sono).
(da sè, e parte)

SCENA VI.

La Contessa, poi il Cavaliere e don Paolino

Contessa. Alle sue spampanate ha il padre mio creduto;

Ebbe di lui timore, ma io l’ho conosciuto.
Cavaliere. Contessa, abbiam goduta la bellissima scena.
Contessa. Perchè sola lasciarmi? Perchè tenermi in pena?
Cavaliere. La viltà di Giacinto a noi non giunse nuova,
E noi del vostro spirito fatta abbiamo la prova.
Paolino. Io vi confesso il vero, io ne provai tormento;
E il cavaliere Ansaldo mi ha trattenuto a stento.
Contessa. Il Cavalier di tutto solito è a prender gioco.
Suole per una donna incomodarsi poco.
Cavaliere. Io conosco Giacinto, so ch’egli è un uom ridicolo;
Non vi averei lasciata esposta ad un pericolo.
Paolino. Ma (compatite, amico) chi ama e stima davvero,
Dee impedire alla dama anche un spiacer leggiero.
Contessa. Udite, signor mio? D’un amor vero e fino
Queste sono le prove. (al Cavaliere)
Cavaliere.   Bravo, don Paolino,
Io di queste finezze non ne so fare alcuna,
E in amore per questo non avrò mai fortuna.
Paolino. Alla vostra fortuna far non pretendo oltraggio,
Nè la passion mi rende men conoscente e saggio.