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254 ATTO QUARTO
Nella stanza contigua portate il tavolino.

(ai servitori)
Non temete, signore, che il loco è assai vicino.
(Gli armati prendono essi il tavolino, e con allegrezza lo portano in altra stanza, scordandosi delle loro armi.)
Giacinto. Fermatevi, sentite, l’armi qui non lasciate.
Cavaliere. Gli uomini valorosi se le saran scordate.
Subito, servitori, l’armi recate loro.
Sentite: (a ciascheduno date un zecchino d’oro,
E mandateli in pace, per forza o per amore).
(piano ad un servitore, il quale unitamente cogli altri prende l’armi, e le porta altrove.)
Giacinto. Resti aperto quell’uscio.
Cavaliere.   Di che avete timore?
Un uomo, come voi, terribile, famoso,
Vergogna è che si mostri codardo e timoroso.
Giacinto. Non temerei nemmeno se fossevi il demonio.
Cavaliere. Venite qua, signore, parliam del matrimonio.
La dama non disprezza l’amor del vostro cuore,
Di voi non si lamenta, ma sol del genitore.
Quando firmò il contratto, se a lei l’avesse detto.
Verso di voi mostrato avrebbe il suo rispetto.
Disse a me cento volte: Un cavalier sì vago
Puote il cuor di una donna render contento e pago.
Chi ricusar potrebbe sì nobile signore?
Amar chi non vorrebbe un uom del suo valore?
(Giacinto si va pavoneggiando)
Ella vi ama, signore, ella è di cor pentita
D’aver dissimulato fìnor la sua ferita.
Chiede al vostro bel cuore per mezzo mio perdono.
Vi offerisce la destra ed il suo cuore in dono.
Giacinto. Meriterebbe, a dirla, ch’io vendicassi il torto.
Ma è donna, e tanto basta; m’accheto, e lo sopporto.
Ditele ch’ella venga umile agli occhi miei,
Diami la man di sposa, ed io perdono a lei.