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388 ATTO SECONDO
Non si vede persona venire alla mia porta.

E, quando non c’è pane, nessuno me ne porta.
Valentina. Perchè non lavorate?
Felicita.   Cosa ho da lavorare?
Quando ho fatto una calza, che arrivo a guadagnare?
Con quattro, cinque soldi si sguazza allegramente.
Valentina. Eh sorella...
Felicita.   Parlate.
Valentina.   Vi piace a non far niente.
Felicita. Uh povera minchiona! avete un bel ciarlare,
Voi che siete padrona di bere e di mangiare.
Anch’io vorrei provarmi di far la mia fortuna.
Se avessi un tal padrone, minchion come la luna.
Ma ci vuol sorte al mondo.
Valentina.   Da ridere mi viene;
Bisogna aver, sorella, volontà di far bene.
Felicita. Oh che donna di garbo, da far delle bravate!
Vi vuol poco, signora, a far quel che voi fate.
Valentina. Ho fatto più di voi; lavoro come un cane,
E mai non son venuta a domandarvi un pane.
Felicita. Oh oh, quando vivea il gramo mio marito,
Quante volte veniste a saziar l’appetito!
Valentina. A saziarmi? Ignorante! venni da voi pregata,
E del vostro contegno mi son formalizzata.
Quel poco che avevate, l’avete scialacquato,
E faceste il consorte morir da disperato.
Felicita. Certo; me l’ho goduta. E voi come c’entrate?
Valentina. S’io non c’entro per nulla, e voi non mi seccate.
Felicita. Non dubiti, madama, ch’io più non ci verrò.
Valentina. Ci venga, o non ci venga, non vo’ morir per ciò.
Felicita. (Dopo che in casa mia le do la libertà
Di venir coll’amante, mi usa tal civiltà).
(da sè, in modo di esser sentita)
Valentina. Se in casa qualche volta venghiamo a incomodarvi,
Mi par di quel ch’io faccio ch’aveste a contentarvi.