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LA DONNA DI GOVERNO 409
Dorotea.   Il diavolo vi porti.

Giuseppina. (Ma che gentil maniera!) (da sè)
Dorotea.   Nipote mia, mi scaldo,
Perchè, già lo sapete, ho il sangue un poco caldo.
E quando ch’io mi sento a contradir, confesso
Non porterei rispetto ne anche a mio padre istesso.
Però non mi crediate sì scarsa di giudizio,
Ch’io voglia in questa casa produrre un precipizio.
Lasciate che Fulgenzio possa venir da voi;
Se non è in casa il vecchio, gli parlerem da noi.
E se Fabrizio il vede, ritroverò un pretesto.
Lasciatemi operare, sono da voi per questo.
Tutto riuscirà bene.
Giuseppina.   Ma non vi è questa fretta...
Dorotea. Ma non mi contradite, che siate maladetta.
Giuseppina. Per non più contradirvi, anderò via, signora.
Dorotea. Dove diavolo andate? Restate qui in malora.
Giuseppina. Siete molto rabbiosa!
Dorotea.   È ver, non lo nascondo.
Son così di natura, così son nata al mondo.
Io vi faccio da madre; davver, vi voglio bene,
Il sangue per giovarvi trarrei dalle mie vene.
Cara, tenete un bacio, farò quel che mi tocca.
Ma lasciatemi dire quel che mi viene in bocca.
Giuseppina. Non so che dir, sfogatevi, con me poco mi preme;
Ma guai se collo zio vi ritrovate insieme.
Egli è al pari di voi focoso e subitano;
Non vorrei che s’avesse a susurrar Milano.
Dorotea. Eh, saprò regolarmi...
Giuseppina.   Vien gente. Chi sarà?
Dorotea. Ecco il signor Fulgenzio.
Giuseppina.   Ci siamo in verità.
Dorotea. Non abbiate paura. (a Giuseppina)
Giuseppina.   Venite pur, signore. (a Fulgenzio)