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414 ATTO TERZO
Figurisi ch’io sia superba e ambiziosa,

Fino a bramar di essere del mio padron la sposa;
Figurisi ch’io aspiri a divenir padrona:
Di oppormi alle sue nozze io non sarei sì buona.
Anzi se l’interesse m’ha vinta e persuasa,
Deggio desiderare di restar sola in casa.
Temono ch’io contrasti lo sposo alle nipoti,
Perch’abbia il mio padrone a risparmiar le doti?
Prima, non son capace di usar questa malizia,
E poi non hanno il modo di farsi far giustizia?
Certo mi fanno un torto a sospettar di me.
Mi odiano in questa casa, e non saprei perchè.
Se meco le signore si fosser confidate.
Protesto che a quest’ora sarebber maritate;
E anche presentemente, se in me si von fidare.
Se mi parlano schietto, vedran quel che so fare.
Fulgenzio. Parmi che questa giovane parli sincera e schietta.
Valentina. (Se mi prestano fede, vo’ fare una vendetta). (da sè)
Giuseppina. (Signora zia, che dite? vogliam di lei fidarci?)
(a Dorotea)
Dorotea. (Proviamo. Finalmente che mal può derivarci?)
(a Giuseppina)
Giuseppina. Se vi foste condotta più docile con noi,
Noi concepito avremmo dell’affetto per voi.
E se ora v’impegnate a pro del piacer nostro,
Contribuir potremo noi pure al bene vostro.
(a Valentina)
Valentina. Vedete, mia signora? se mi aveste avvisata.
Ora in un labirinto voi non sareste entrata.
Fate venir l’amante nel vostro appartamento,
E lo zio con un altro di voi fa l’istrumento.
Giuseppina. Con ehi vuol maritarmi?
Valentina.   Con Pasqual Monferrato.
Dorotea. Con quel brutto vecchiaccio? oh che sia scorticato!
Valentina. Eccolo ch’egli viene.