Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1913, XVII.djvu/332

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Lucrezia. Non è dover, se in piedi restar vuole il padrone.

Che facciasi sedendo con lui conversazione.
Queste ch’io non conosco, dame saran di sfera;
Per far il mio dovere, m’alzerò io primiera.
(Credo che queste siano dame come son io!
Ma i Turchi li conosco, so fare il fatto mio).
Tonina. (La fa da gomitar1 co ste so affettazion).
Annina. (Che la diga pur su, mi stag ben dov’a son).
Tonina. (Senti, se ti ghe parli in fazza de culia,
Fazzo qualche gran scena). (piano a Pasqualino)
Pasqualino.   (Che pazienza è la mia!)
Alì. Vostro nome?
Lucrezia.   Lucrezia, signor, per obbedirla.
Alì. Virtuosa de musica?
Lucrezia.   Sì signor, per servirla.
Alì. Star profession medesima tutte queste persone.
Lucrezia. Umilissima serva di queste due padrone. (ad Ann. e Ton.)
Riverente m’inchino. (a Pasq.) Par ch’ognun mi ributti?
Han ragione, signori, son l’ultima di tutti.
Senza merito alcuno, senz’ombra di virtù,
Da persone di rango non merito di più.
Alì. (Questa star virtuosa, per quel che all’occhio par,
Che non aver catarro2 da prima voler far).
Lucrezia. Credo che già a quest’ora il suo felice ingegno
Scielti avrà i virtuosi del genere più degno.
Io che son, nella musica, del popolo inferiore,
Meritar non poteva un sì sublime onore.
È ver che buona voce sortii dalla natura,
Che giovami in teatro l’aspetto e la statura;
È ver che han più maestri in mio favor deciso,
Che intendo il contrappunto, ch’io canto all’improviso,
E dove ho recitato, e dove mi han sentito,
Dirò modestamente, mi han sempre compatito:

  1. Fa venire il vomito.
  2. V. vol. XII, p. 494.