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150 ATTO TERZO


SCENA III.

Guglielmo e la suddetta.

Guglielmo. Finalmente vi ho potuto poi rinvenire.

Giacinta. Che volete da me? Anche qui venite ad importunarmi?

Guglielmo. Parto, sì, non temete. Concedetemi ch’io possa dirvi due parole soltanto.

Giacinta. Spicciatevi. (guardando d’intorno)

Guglielmo. Vi supplico della risposta, di cui vi avea pregato stamane.

Giacinta. Io non mi ricordo che cosa mi abbiate detto.

Guglielmo. Ve lo tornerò a replicare.

Giacinta. Non c’è bisogno.

Guglielmo. Dunque ve ne sovverrete benissimo.

Giacinta. Andate, vi priego, e lasciatemi in pace.

Guglielmo. Due parole, e me ne vado subito.

Giacinta. (Qual arte, qual incanto è mai questo!) E così?

Guglielmo. Ho da vivere, o ho da morire?

Giacinta. Sono queste domande da fare a me?

Guglielmo. Bisogna ch’io lo domandi a chi ha l’autorità di potermelo comandare.

Giacinta. Pretendereste voi ch’io mancassi al signor Leonardo, e che mi facessi scorgere da tutto il mondo?

Guglielmo. Io non ho l’ardir di pretendere; ho quello solamente di supplicare.

Giacinta. Fareste meglio a tacere.

Guglielmo. Non isperate ch’io taccia, senza una positiva risposta.

Giacinta. Orsù dunque, giacchè s’ha da parlare, si parli. Riflettete, signor Guglielmo, che voi ed io siamo due persone infelici, e lo siamo entrambi per la cagione medesima. Se la nostra infelicità si estendesse soltanto a farci vivere in pene, si potrebbe anche soffrire; ma il peggio si è, che andiamo a perdere il decoro, l’estimazione, l’onore. Io manco al mio dovere, ascoltandovi; voi mancate al vostro, insidiandomi il cuore. Io manco al rispetto di figlia, al dovere di sposa, all’obbligo di fan-