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308 ATTO TERZO

Fulgenzio. Sono poche ore ch’egli è arrivato in città. Non è uscito di casa, probabilmente non saprà nulla.

Leonardo. Sono sì pieno di rossore e di confusione, che non ardisco presentarmi a nessuno. Quel sordido di mio zio ha terminato di avvilirmi, di mortificarmi.

Fulgenzio. Venga il canchero all’avaraccio.

Leonardo. Ma non ve l’ho detto, signor Fulgenzio? Non v’ho io prevenuto di quel che si poteva sperare da quel cuore disumanato?

Fulgenzio. Non ho mai creduto una simil cosa. Pazienza il dire: non ne ho, non ne posso dare, non ne vo’ saper niente. Mi è dispiaciuto la manieraccia impropria con cui ci ha trattati; quella derisione continua, quella corbellatura sfacciata.

Leonardo. Ho incontrato questo dispiacere per voi, e l’ho sofferto per amor vostro.

Fulgenzio. Non so che dire. Me ne dispiace infinitamente; ma per l’altra parte questo tentativo doveva farsi, ed ho piacere che si sia fatto. Se è andato male, pazienza. Io non vi abbandonerò. Mi sono sempre più interessato nelle cose vostre. Sono in impegno d’assistervi, e vi assisterò. Ponetevi in quiete, rasserenatevi, che vi assisterò.

Leonardo. Ah! sì, il cielo non abbandona nessuno. È una provvidenza per me il vostro tenero cuore, la vostra generosa bontà.

Fulgenzio. Facciamo ora questo secondo tentativo col signor Filippo. Io mi lusingo riuscirne. Ma in caso contrario non vi perdete d’animo, non vi lascierò perire sicuramennte.

Leonardo. Il progetto vostro non può essere meglio concepito, e il facile temperamento del signor Filippo ci può lusingare d’un esito fortunato. Preveggo bensì difficile il persuadere Giacinta a lasciar Livorno, e venir meco lontana dal suo paese.

Fulgenzio. Quando non vi siano maggiori obbietti per concludere le vostre nozze, ella, o per amore o per forza, sarà obbligata a venir con voi.

Leonardo. È vero, ma vorrei ci venisse amorosamente; e dubito molto della sua resistenza.