Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1923, XXII.djvu/270

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Dorval. Se voi voleste ascoltarmi...

Geronte. (Vivamente) Acchetatevi. Mio fratello ha fatta la pazzia di lasciar la dote nelle mani di suo figlio, dubito che da lui sarà stata mal custodita; ma ciò non fa niente, quelli che avranno fatto con lui degli affari, saranno forzati restituire; la dote non può perire, ed in ogni caso io ne risponclerò.

Angelica. (Da sè) (Non ne posso più).

Dorval. (Imbarazzato) Tutto ciò va bene, ma...

Geronte. Che?

Dorval. (Guardando Angelica) Credo che la signora Angelica abbia qualche cosa da dirvi su tal proposito.

Angelica. (Tremando) Io?...

Geronte. (Alterato) Vorrei ben vedere, che ella avesse qualche cosa a ridire su quel ch’io faccio, su quel che ordino, su quel ch’io voglio; quel che voglio, quel che ordino, quel che faccio, lo faccio, lo voglio e lo ordino per il vostro meglio. Intendete? (ad Angelica)

Dorval. Parlerò io dunque e per lei, e per me.

Geronte. Voi? Cosa avete da dirmi?

Dorval. Che me ne dispiace infinitamente; ma che questo matrimonio non si può fare.

Geronte. (Adirato) Cospetto! (Angelica e Dorval si allontanano un poco. A Dorval) Voi m’avete data la vostra parola d’onore.

Dorval. Sì, ma a condizione...

Geronte. (Volgendosi ad Angelica) Sarebbe forse quest’impertinente? Se lo potessi credere... se potessi dubitarne...

Dorval. (Con serietà) Non signore. Voi v’ingannate.

Geronte. (A Dorval, con isdegno) Siete voi dunque, che mi mancate?

Angelica. (Coglie il momento che Geronte parla a Dorval, e si ritira fuggendo.)