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206 ATTO PRIMO

SCENA VIII.

Everardo condotto da una guardia, e detta; e poi Ottone.

Griselda. Vieni, vieni, Everardo, o dolce, o caro

Frutto dell’amor mio; già di quest’alma
In te bacio una parte, ed in te bacio
Del mio Gualtier l’immagine adorata.
Felice te, che in puerile etade
Non comprendi il rigor del tuo destino.
Oh, quanto, oh quanto ti faria pietade
La tua povera madre! Oh quanti pianti
Spargeresti con lei! Povero figlio!
Dunque per mia cagion privo del soglio,
Benchè figlio di Re, viver dovrai?
Dalle viscere mie traesti il duro
Stato di servitù; ma se traesti
Dalle viscere mie la mia costanza,
Nulla ti calerà dell’empia sorte.
Vieni meco, ben mio, tu mi sarai
Di soave conforto. Avrò mai sempre
In te del padre tuo presente il volto.
Vieni meco alle selve...
Ottone.   E chi ti diede
La libertà di condur teco il figlio?
Griselda. Gualtier.
Ottone.   No, Gualtiero anzi t’impone
Darlo nelle mie man.
Griselda.   Per qual cagione?
Ottone. Perchè darti non vuol nelle tue pene
Un sì grande conforto.
Griselda.   Ah, ch’io non credo
Sì crudele il mio Re.
Ottone.   Mal lo conosci.
Egli la stessa crudeltade ha in seno,
E tu ancora l’adori?