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258 ATTO TERZO
Non ti caglia, o Signor: solo ti priego

Per il tenero mio caro Everardo,
Per quel figlio, che pur è figlio tuo;
Che s’ebbe madre vil per sua sventura,
Ebbe un padre real per sua fortuna.
Questo ti raccomando; a lui perdona
Una colpa innocente. Addio, Everardo,
Addio, figlio diletto: io spero un giorno
Che piagnerai nell’ascoltar gli eventi
Della misera tua madre infelice.
Via, che tardi, Gualtier? Quel ferro impugna.
Passami il sen, nè dubitar ch’io chiami
La tua destra crudel; morrò qual vissi
Fida, ubbidiente: intrepida offerisco
L’inerte petto. Aprilo, Sire, e in esso
Ritroverai la tua diletta effigie.
Passami il sen, svellimi il core, io voglio,
Pria che viver d’altrui, di te morire.
Gualtiero. Non più, cor mio, non più, vieni al mio seno,
Qual mia sposa ti stringo.
Ottone.   (Oh me infelice!)
Gualtiero. Popoli di Tessaglia, che rei siete
Del cielo e del Re vostro, ormai vedete
Qual Regina a voi scelta1, a me qual moglie.
La virtù, non il sangue è che la rende
Degna della corona, e ben scorgete
Di Griselda qual sia l’alta virtude.
Simulai seco sdegno a solo fine
Che scopriste voi stessi il vostro inganno.
Pentitevi, alme ingrate, e a lei rendete
La dovuta giustizia.
Corrado.   Il lor silenzio
La confusion dimostra, e il pentimento.
Gualtiero. E Otton che dice?

  1. Nella Griselda dello Zeno: Qual Regina ho a voi scelta.