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418 ATTO TERZO
Del nostro regno i tutelari numi,

M’accingeva alla pugna. Ecco un de’ nostri
Rapido a me venir. Spiegar, mi disse,
Spiegaro gli African candide insegne;
Chieggono tregua, desolati in parte
Dalle spade de’ nostri. Era maggiore
Il numero però degl’inimici
Senza confronto, ond’io stimai ventura
Altrui donar ciò che temea ben tosto
Dover chiedere in dono. Ambasciatori
Ci mandammo l’un l’altro, e con quel dritto
Che a me vostra mercè già concedeste,
Di sei lune fissai la nostra tregua
Con il barbaro Re, la di cui figlia
Mi chiese invano: per ostaggio a voi
L’ho qui condotta; ed in ostaggio a lui
Due Paladini inviai, Ridolfo e Ormondo.
Egli pace desia; di pace i patti
Sono ristretti in questo foglio, (porge a Carlo una carta
  A Voi
L’accettarli si aspetti, o il ricusarli.
Ritornerò, se l’imponete, o Sire,
Contro gli empi a pugnar. Parvemi allora
Opportuna la pace, e l’accettai.
Temerario è colui che in suo valore
Troppo confida, e il suo Signore espone
AI periglio evidente. Io feci quanto
Si conveniva a un capitan fedele.
Lo sosterrò degli emoli a confronto;
Lo diranno i soldati; e voi, Signore,
Lo direte a voi stesso. A voi rimetto
La causa mia: da un capitan sì grande
Giudicato venir, sarà mia gloria.1

  1. Nelle edizioni del Settecento si legge: sarà per mia gloria.