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524 ATTO QUARTO
Leonzio. Signor, se lice ad un fedel vassallo

Lagnarsi del suo Re, vengo di voi
Giustamente a dolermi: e qual delitto
Commise Ormondo? Riflettete, o Sire,
Ch’egli è genero mio1. La mia famiglia
Con eterna ignominia infama e oscura
Questa vostra ingiustizia. Ah rammentate
Che una tal prigionia dal vostro fianco
Può staccar le persone a voi più fide.
Ma qual ragione a perversar v’induce
Contro quell’infelice?
Enrico.   Il suo delitto
E noto a me. Ragione altrui non rendo
Del mio voler.
Leonzio.   Eh già m’è noto, o Sire,
Ciò che vi spiace in lui. So qual passione2
Vi consigliò. La vostra debolezza
È l’inimico vostro: ella è che tanto
Odioso vi rende un innocente.
Enrico. Poichè sì franco ragionarmi ardite,
Col medesimo stile io vi rispondo.
Vi dolete di me, perchè fra’ ceppi
Feci stringere Ormondo, ed io vi aggiungo,
Che non termina qui lo sdegno mio.
Se vi sembro crudel non istupite,
Mentre la crudeltà voi m’insegnaste.
Sì, barbaro, inumano, mi toglieste
Al riposo, alla pace, a quanto mai3
Mi rendeva felice. Ah che ridotto
Voi mi avete ad odiar4 sino me stesso.
Mi toglieste Matilde, e il cuor con essa
Mi strappaste dal sen. Non vi crediate,
Ch’io per questo seguir voglia alla cieca

  1. Bett.: Rifletteste, o Sire, — Ch’egli è Genero mio?
  2. Bett.: mistero.
  3. Bett.: Il riposo, e la pace, e quanto mai ecc.
  4. Bett.: a odiar.