Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1926, XXIII.djvu/602

Da Wikisource.
598
...Lo stesso cor di Bellisario ancora.

(siede su l’ultimo gradino del Trono
.     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
...E cieco è quel che di fortuna al riso
Troppo s’affida, e il suo variar non teme.
Della mia dura cecità presente
Fu ben quella maggior, quando infelice
Gl’inganni della Corte io non vedea;
Che di questa cagion fu quella al certo.
Apprenda ogni mortal dal mio destino
Che chi serve a’ Monarchi, o presto, o tardi,
Cieco render lo può l’invidia altrui, ecc.
.     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
Parmi di sentir gente.
Teodora.   Ove mi guidi?
(condotta per mano da Giustiniano
Giustiniano. Vieni, che lo saprai ecc.
.     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
.     .     .     .     .      fissati in questo
Spettacolo funesto, e poi richiama
A consiglio del cor gl’indegni affetti.
Teodora. Come, Signore, a me? ecc.
.     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
Giustiniano. ...Dell’innocenza tua certo mi rendo.
Teodora. (Qual stravaganza è questa?)
Bellisario.   O care voci,
Delle stesse mie luci assai più care; ecc.
Giustiniano. Specchiati in questi lumi, osserva, ingrata,
Il primo Eroe del mio temuto Impero
Cieco reso così per una cieca
Tua tiranna passion. ecc.
.     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .