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166 ATTO TERZO
Fatima. E tu con labbro sciolto, ad insultare avvezzo.

Aggiungi all’altrui danno con l’ingiurie il disprezzo.
Vuoi che lo sdegno io nutra? tu pur lo nutri in seno;
Ma con parole audaci non ne fo pompa almeno.
Ircana. Taci; or siamo scoperte, sei mia nemica.
Fatima.   Ed io
Dovrei a chi m’insulta giurar lo sdegno mio.
Ma non temer, son tale, che a chi m’insulta ancora,
Non posso il cor sincero serbar nemico un’ora.
Ircana. Segno di tua viltade.
Fatima.   T’inganni; un segno è questo,
Che dell’anime vili la vendetta detesto;
E se la virtù stessa vuol che per te mi aggrave,
Segno è che non mi cale di altercar colle schiave.
Ircana. Schiava son io, che puote far tremar un’altera.
Fatima. Anche di gallo il canto fa tremar una fera.
Ircana. O parti, o Tamas d’una di noi vedrà la morte.
Fatima. Veggala; ambe moriamo; ma dentro a queste porte.
Ircana. Perfida!
Fatima.   Io non t’insulto.
Ircana.   Più il tuo tacer m’affanna.
Fatima. Non la mia sofferenza il tuo furor condanna.
Ircana. Parto, perchè il tuo volto mi provoca, e m’uccide;
Più della morte ho in odio donna che freme e ride.
parte

SCENA IV.

Fatima sola.

No, non vogl’io pentirmi d’aver sofferto in pace,

Senza cambiar le offese, senza insultar l’audace.
L’ira sfogar col labbro con chi c’insulta, è segno
Che, sopra la ragione, predomina lo sdegno.
E la viltà un estremo, temeritade è l’altro;
Prudenza è il mezzo onesto, in un nobile e scaltro: