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LA PERUVIANA 317

moda corrente: mancavano gli abiti stranieri, mancavano le Scene, mancava la picciolezza del Teatro in cui l’occhio e l’udito stasse raccolto, mancava la esteriore apparenza, mancavano gli Attori, li quali intendessero quel che dicono, ed esprimessero con sentimento quel che intendono”.

Queste parole dovettero lunsingare il Goldoni e risuonavano forse ancora nella sua mente quando dettava la prefazione della commedia; ma io dubito che lo Sciugliaga, il quale approvava perfino “le descrizioni dell’innesto, e della caccia dell’usignolo”, rimanesse un tantino deluso dopo la stampa della Peruviana. Certo nessun capocomico pare che si invogliasse a riprodurla sulle scene. Restò da tutti abbandonata e negletta. Credo che pochissimi lettori intelligenti ne abbiano sopportato la noia fino all’ultimo verso. Un tempo l’ammirò forse qualche ragazzo: così Giovanni Giraud, nato a Roma nel 1776, nella sua prima giovinezza rileggeva, come confessa, le commedie romanzesche del Chiari e del Cerlone, e schiccherava nuovi mostri in versi martelliani, “ansioso d’imitare le Ircane e le Peruviane del Goldoni” (pref. alle Commedie, Roma, 1808). Gli scrittori moderni la riprovano in coro e sdegnano quasi tutti di parlarne. Falsa e pesante la giudica Vemon Lee, ma non so perchè la intitoli la Bella Peruviana (Il Settecento In Italia, vers. it.a, Milano, 1892, vol. II, p. 282); “nulla di esotico” vi trova Emilio del Cerro (N. Niceforo), “meno il titolo”. ma non so perchè la chiami la Sposa Peruviana (Nel regno delle maschere, Napoli, 1914, p. 344). Il Goldoni, dice Giulio Caprin, cadde nell’errore “comune a tutto il 1700, che l’anima dell’uomo fosse eguale da per tutto... Di Persiano, di Peruviano, di Armeno, i personaggi delle commedie romanzesche non hanno che le vesti; la loro psicologia è tutta della stessa qualità... Le loro passioni, nel momento in cui starebbero per recare effetti tragici, si placano a un richiamo della “natura”: sarebbe difficile immaginare delle anime impastate di miele più che Zilia e Aza della Peruviana, quantunque il destino li ponga in situazione che giustificherebbero asprezza e violenza” (C. Goldoni ecc., Milano, Treves, 1907, pp. 293-4). Tuttavia anche quest’opera disgraziata ebbe l’onore di essere tradotta e rappresentata sulle rive del Tago, in Portogallo. Ed ecco la stampa: “Comedia intitulada Peruviana do Doulor Carlos Goldoni. Que se reprezentou no theatro do Baino Alto. Lisboa. Na officina Caetano Fenreira da Costa, 1774” (v. Catalogo generale della Raccolta drammatica italiana di Luigi Rasi, Firenze, 1912, pag. 415).

Davvero non sappiamo oggi spiegarci come mai Carlo Goldoni potesse illuderti intorno ai pregi di questa sua pseudo-commedia martelliana, dalla quale ogni alito di poesia rifugge, dove più che mai volgare, barcollante e azzoppato è il verso, dove a ogni scena ci irrita qualche puerilità, dove amori e cuori ci fanno ricordare pietosamente il teatro dei burattini, dove “comico” e “serio”, senza mai fondersi, ci fanno sbadigliare egualmente, dove il romanzo stesso della signora di Graffigny ha perduto ogni sapore e ogni grazia, dove anche l’intreccio si è in fine arruffato per mezzo d’una inutile agnizione, per cui Zilia e Aza si riconoscono fratelli (come in tanti altri drammi e romanzi del tempo: v. Ch. Dejob, Les femmes dans la comédie etc., Paris, 1899, p. 76). Non dico già che questa commedia o tragicommedia serva a farci conoscere i limiti dell’arte goldoniana: solo dimostra la stan-