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382 ATTO QUARTO
Erano simulati quei teneri sospiri.

E per accreditare, ch’io fossi qual non sono,
Scaltra, voi mi faceste di questa gemma un dono.
Zulmira. Rendila pure.
Ircana.   Indegna sarò di così poco?
Zulmira. Rendimi quella gemma, che ti donai per gioco.
(alterata
Ircana. Eccola, ma se aveste sol di scherzare impegno.
Ora perchè lo scherzo si è convertito in sdegno?
Zulmira. No, non mi sdegno, amica.
Ircana.   Amica? Tal mi onora
Del mio signor la sposa?
Zulmira.   Vo’ scherzar teco ancora.
Ircana. Finchè da finte spoglie copriasi il sesso mio,
Soffria degli altri il riso; d’altri rideva anch’io.
Or son chi son, Zulmira. Or la finzione è vana.
Zulmira. No ti sdegnar per questo, non adirarti, Ircana.
Vieni meco, vo’ darti d’amor verace segno.
Ircana. (Veggo il riso forzato; cova costei lo sdegno.
Anche Fatima istessa, che avea men empio il core,
Si provò coll’affetto mascherar il livore.
Tutte le donne eguali sono pur troppo in questo.
L’ira sol’io nel viso di mascherar detesto), da sè
Zulmira. (Parla fra sé la scaltra. Qualche disastro aspetta.
Vo’ accelar, se posso, il corso alla vendetta). da sè
Vieni meco.
Ircana.   A qual uopo?
Zulmira.   Schiava servir ricusa?
Ircana. No, di servir son pronta; ad obbedir son usa.
Zulmira. Seguimi.
Ircana.   All’orme vostre fida m’avrete intorno.
Zulmira. (Vieni, che più la luce non mirerai del giorno).
(da sè, e parte
Ircana. Veggo, o di veder parmi, torbidi i di lei lumi.
Difendetemi voi, dell’innocenza o Numi. parte