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560 ATTO QUARTO

SCENA VII.

Donn’Alba sola.

Poveri affetti miei, sì mal foste impiegati

Per un fellon che nutre tai sentimenti ingrati?
Scorso per rivederlo ho il mar fra le procelle,
E all’amor mio mercede contendono le stelle.
Posso del mondo in faccia mostrar di non curarlo,
Ma il cuor segretamente è costretto ad amarlo.
L’amo ancor quell’indegno da tante colpe oppresso?
L’amo macchiato in volto dal disonore istesso?
Ah sì, la mia passione tutti i confini eccede:
Ma non lo sappia il mondo che nel mio cor non vede.
E benché nel mio seno duri la piaga antica,
Vo’ che ciascun mi creda del traditor nemica.
Cieli! alla mia presenza osa venir l’audace?
Fuggasi; ah non ho core. Che dir vorrà il mendace?
S’ei dell’error pentito... ma tardo è il pentimento;
Coi rimproveri acerbi si accresca il suo tormento.

SCENA VIII.

Don Ximene e la suddetta.

D. Ximene. Donn’Alba...

Donn’Alba.   Questo nome non pronunciare1, ingrato.
D. Ximene. Deh se più non mi amate...
Donn’Alba.   Mai so d’averti amato.
D. Ximene. E pur nei primi giorni, degno del vostro amore...
Donn’Alba. Quando mai fosti degno d’incatenarmi il cuore?
D. Ximene. Allor che una passione cieca, violenta, ingrata,
Di viltà non aveva quest’anima macchiata.
Deh mirate, donn’Alba, mirate a voi dinante

  1. Ed. Pitteri: prononciare.