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canto undecimo 249

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     Disse Marfisa: — Io ti darò un susomo;
altro non mi sai far che triste angurie; —
e grida al postiglion che suoni il corno,
sferzi i cavalli, ed entra nelle furie;
e benché porti una gran febbre intomo,
non lascia le minacce né l’ingiurie,
ma alfín la febbre d’una buona razza
basta a frenare anche una donna pazza.
8
     E convenne far alto in un villaggio,
perché Marfisa piú non si reggea.
Or quasi Ipalca ha smarrito il coraggio
per il finto marito che gemea,
e dice: — Eccovi alfin quel dal formaggio.
Caro Gesú ! fuggir non si dovea. —
Marfisa è oppressa, ma l’ha minacciata
con una guardatura spiritata.
9
     Prendesi alloggio, ed ali ’uomo-fanciulla
venne un dottor d’una trista figura.
Di villa egli è, ma il capo non gli frulla,
ne sa quanto un Macope ad una cura,
perché l’arte sapea di non far nulla
e di lasciar l’imbroglio alla natura.
Tocca il polso, l’orina vuol vedere,
e poi dice: — Ha la febbre il cavaliere.
10
     Diman verrò, vederem, penseremo;
non mangi, e beva generosamente. —
Marfisa al suo partir diceva: — Fremo;
costui è un asin risolutamente. —
Torna il dottor, che par di cervel scemo,
con un passo ed un viso sonnolente,
ritocca il polso, vuol l’orina, e guata,
poi dice: — Questa febbre è declinata.